Note di regia de "Le mura di Bergamo"
Tre anni fa, a marzo del 2020, abbiamo attraversato un'Italia deserta per arrivare a Bergamo nel mezzo di una crisi mai vista. Per una volta non ero partito da solo con la mia telecamera per provare a raccontare, come avevo fatto per la rivoluzione in Egit to o l’invasione israeliana della Striscia di Gaza, una realtà complessa, un conflitto, una zona di crisi. Per una volta mi accompagnava un gruppo di giovani registi, già miei studenti al corso di documentario del CSC Palermo, con i quali avremmo provato a fare qualcosa che per me, anzi per ognuno di noi, era completamente nuovo: moltiplicare i punti di vista per provare a imbastire un racconto corale di una realtà sfaccettata e complessa, quella di una intera città che si ritrova da un giorno all’altro in vestita da una catastrofe imprevista e imprevedibile, nei confronti della quale ogni certezza si è sgretolata e ci si è scoperti totalmente impreparati. In punta di piedi abbiamo iniziato a filmare le vite di chi, rischiando in prima persona, cercava di a ffrontare, capire e superare l’emergenza che ci stava investendo tutti. La nostra scommessa era quella di restituire i movimenti di una comunità in resistenza. Ogni sera per molti mesi ci siamo riuniti a guardare le immagini raccolte, cercando di trovare i raccordi invisibili che le univano, come fanno le vie e le strade di una città con le persone. E poi ci siamo lasciati condurre lungo le mura di Bergamo, fino a un luogo che affettivamente abbiamo ribattezzato "la Montagnola". In questo luogo fisico, un angolo di giardino ricavato sopra un antico bastione della cinta muraria monumentale, tutte le storie che abbiamo intercettato, così come i loro protagonisti, hanno potuto incontrarsi, raccontarsi, scoprirsi simili o diverse dalle altre decine di storie ch e la pandemia aveva provato a cancellare. Nei nostri incontri alla Montagnola abbiamo assistito a una collettività che piano piano riprende la parola, prima con pudore e con paura, e poi sempre di più con la consapevolezza che solo da questo sforzo per tro vare il modo di raccontarsi quello è successo nelle settimane dell’isolamento, della paura e del lutto, la città può cominciare a curare i suoi traumi e i suoi abitanti ritrovare il senso del loro stare insieme. Per altri due anni siamo tornati a Bergamo p er documentare questo rituale collettivo di rielaborazione del lutto che avevamo visto nascere e di cui questo film - memoriale si è voluto fare portavoce. La necessità che avevo sentito sin dall’inizio di moltiplicare i punti di vista del racconto cinemat ografico si scontrava sicuramente con l’esigenza di riuscire a mantenere una forte unità dello sguardo d’insieme. Non è stato facile ma, semmai ci siamo riusciti e non sta a noi giudicarlo, è stato, nei lunghi mesi che abbiamo passato tutti insieme a Berga mo, lavorando tutti e 8 come un corpo unico, passando molto più tempo a riguardare insieme quello che ognuno aveva girato, piuttosto che a girare. E questo è stato possibile soltanto perché questa pratica collettiva era quella che aveva caratterizzato il n ostro lavoro insieme nel corso dei tre anni alla scuola di documentario. Per questo motivo mi sento che, nonostante sia il frutto di un lavoro di gruppo, questo film è forse il più personale e intimo tra quelli che ho fino ad ora realizzato.
Stefano Savona