Note di regia di "L'Ombra del Gigante"
Quando ci si propone di trasporre filmicamente un racconto letterario si è assaliti, sovente, da molti dubbi ed altrettanti timori. Un disagio, alimentato da chi teorizza tenacemente l’ardua conciliabilità tra immagine filmica e testo scritto: ci si chiede se la preoccupazione di non tradirne (o, semplicemente, non travisarne) tema e registro espressivo, condizioni più del dovuto il lavoro di trasposizione dello stesso; se, altresì, sia auspicabile o meno, operare una marcata contaminazione tra cinema e letteratura che, nonostante alcune componenti linguistiche comuni, sono pur sempre strumenti molto diversi. Fornire una risposta non è semplice.
Riferendomi al mio approccio con il racconto “Il gigante” di Paola Capriolo, devo dire che l’idea di una trasposizione cinematografica è nata da una lettura palpitante; non quella della semplice – comunque stilisticamente mirabile - narrazione di una storia, ma la creazione affascinante di un mondo. Nelle diverse letture successive, ho riscontrato ogni volta una sorpresa, un indizio significante: un’intuizione filmica - anche quella, apparentemente, più irrazionale - germina sempre da una scintilla, una sollecitazione imprevista. Per quanto mi riguarda, stato investito da un vero e proprio flusso d’immagini che s’è imposto su ogni, possibile, preoccupazione scritturale. Avevo letto un’opera letteraria degna di nota e, al contempo, avevo letto un film che chiedeva prepotentemente di venire alla luce. “Vedere” il proprio film, prima ancora d’iniziare a girarlo, ritengo sia, per un autore, una condizione - un’attitudine - imprescindibile; come lo è per un pittore, vedere il proprio quadro prima di dipingerlo e definirne, materialmente il contenuto e la forma.
Alla luce di queste considerazioni, vorrei soffermarmi su quelli che sono i miei criteri espressivi che presiederanno alla realizzazione del film “L’ombra del gigante”.
Dal punto di vista drammaturgico (il dramma va letto, qui, nel suo significato etimologico, cioè “azione”; non intesa, tuttavia, come semplice rappresentazione di personaggi ed avvenimenti, bensì quale simbolico sviluppo temporale; potrei dire: azione interiore), immagino una narrazione che esalti la componente metafisica del racconto, attraverso la costruzione di un’atmosfera di sospensione, di “ambivalenza del dopo”, che sottolinei la predominanza espressiva del tempo. Confido, in tale direzione, nel supporto di elementi squisitamente filmici: il montaggio, anzitutto (in certo modo, dovrebbe rivelarsi già durante le riprese), con la funzione di accentuare il contrasto e, nel medesimo tempo, la simultaneità, se mi è concesso citare Pudovkin. Penso ad un ritmo rarefatto, astratto – dove gli stacchi siano limitati all’essenziale – nei momenti in cui l’introspezione psicologica si coniuga, su un registro allegorico, con il dipanarsi del racconto. La tensione dovrebbe essere spasmodica, costantemente accesa come il brivido spettrale che annunzia l’incubo.
Ritornando ad un’interpretazione simbolica del tempo, il quale si comprime e si dilata a dismisura in modo opposto alla natura dei sentimenti che genera, vorrei che la narrazione – nella sua struttura portante – procedesse con un ritmo asciutto ma incalzante; un’impaginazione dinamica. Ritengo gli indugi descrittivi, l’immagine patinata, assai poco funzionali.
Ho parlato dell’apporto determinante del montaggio; ad esso aggiungo: lo studio dell’inquadratura, la scenografia e la colonna sonora. Riguardo alla scelta delle inquadrature, vorrei che non servissero alla semplice visibilità delle cose – il criterio estetico dovrebbe essere quello dell’equivalenza, non della riproduzione – ma recassero dentro a sé una vibrazione: in questo senso, la macchina da presa dovrebbe, essere, per così dire, il tramite del disvelamento dei ‘mondi interiori’ dei protagonisti.
E’ mia intenzione ricercare un equilibrio figurativo – negli interni, soprattutto, una particolare gestione degli spazi e gli arredi, dovrebbe consentire il necessario dosaggio della tensione drammatica del racconto – e comporre ogni inquadratura, facendo ricorso, quale fonte d’ispirazione, alla pittura: quella di Gustav Klimt dell’inizio della sua esperienza artistica e, pur nella distinzione delle intuizioni plastiche, di Paul Delvaux e Max Ernst. Penso al primo per le atmosfere magiche; ai secondi, per le immagini allucinate dove la dimensione onirica è espressa dal contrasto tra realtà psichica e realtà rappresentata. Tale studio figurativo riguarda anche la scelta delle scenografie che andranno scelte anche con la finalità di ricreare ‘il mondo’ ideato da Paola Capriolo. Mi piacerebbe evocassero una località mitteleuropea, lasciando il posto, nel medesimo tempo, all’impressione del “non visto”, del luogo senza tempo. Non un paesaggio- sfondo, ma segno, del quale si percepiscano, quasi, gli odori: quelli dell’erica in primavera, della terra bagnata di brina al mattino; quello della polvere di oggetti muffiti dal tempo, negli ambienti inquietanti della fortezza, che immagino un ‘nido d’aquila’. Una prigione, vorrei dire, strindberghiana, che acuisca l’estraneità tra chi vi è segregato e chi, invece, si trova ad abitarla (il capitano e la sua famiglia) ed un “mondo fuori” che appare sideralmente lontano.
Se mi si chiedesse di dare una definizione dei miei intendimenti fotografici, potrei
parlare di una fotografia dinamica che intervenga e si modifichi simbolicamente, in stretta connessione con lo sviluppo drammaturgico del racconto. Il riferimento è al dialogo musicale – e la passione divorante che ne consegue - tra la protagonista Adele ed il misterioso prigioniero, che costituisce la sequenza centrale del racconto filmico e letterario. Immagino una luce manipolata nei valori cromatici che ‘isoli’ il personaggio – inteso come identità psichica – ed evochi l’annullamento dello spazio intorno ad esso. Il motivo d’ispirazione è, di nuovo, la pittura. Penso a quella fiamminga del XVII secolo, da Van Dyck a Rubens, che subì una significativa influenza dall’opera del Caravaggio e dalla scuola italiana del ‘500 ed il ‘600: ho davanti agli occhi una ‘carnalità’ figurativa – espressa da ardite soluzioni luministiche che drammatizzano il contrasto tra luce e ombre. Diversamente – il richiamo è, in qualche modo, a “La contessa di Albemarle” di
Joshua Reynolds – immagino una fotografia più incisa, terrea (le dominanti cromatiche dovrebbero essere: il bianco, il grigio, il verde spento) che si desasaturi sino a diventare mortuaria, nel momento dell’agonia e la morte dei Adele, seguita a quella altrettanto silente - quanto la dipartita della donna - del prigioniero. Un contributo significativo potrebbe venire dalla scelta dei costumi che dovrebbero smorzare ogni tipo di contrasto ed attenuare le luce irruenta del sole e, allo stesso modo, quella flebile ma tenace di una lampada a petrolio o di una candela.
Concludo, soffermandomi sulla colonna sonora e l’intervento musicale.
La partitura che ho negli orecchi dovrebbe avere una funzione perturbante. Si pensi alle note di pianoforte di Adele: stentate, pressoché inerti, all’inizio, quasi a voler esprimere il torpore dei sentimenti, la rassegnata consapevolezza della solitudine interiore da cui la donna è pervasa. Ma, all’improvviso, il mutamento. Quella musica, insieme alla risposta del di violino del prigioniero – note struggenti che suscitano l’incanto – diviene partitura musicale che traccia, per Adele e l’uomo un “itinerario dello spirito”; è quanto si traduce nel desiderio di entrambi – ricorrendo ad una definizione suggestiva – di librarsi verso l’infinito, oltre l’”umana prigionia”. In tal senso, immagino un intervento musicale che abbia una duplice partitura drammatica e sortisca l’effetto di complicazione semantica. Da una parte, una colonna sonora – dove s’impongano i fraseggi trasparenti, l’impiego (negli incisi) di viola e violoncello, soprattutto – che non manchino di rendere percettibile il silenzio e permettano l’utilizzo simbolico dei rumori. Un intervento musicale, potrei dire, che si neghi, in quanto tale; dall’altra, penso ad una sonata per pianoforte e violino che si esplichi nella compiutezza delle sonorità e traduca, con accenti commossi e commoventi, il potere insopprimibile della passione; cercando un accostamento con la descrizione fatta dal racconto, ritengo - con il conforto di Paola Capriolo con cui mi sono confrontato – trovo la Sonata in La maggiore di César Franck (che della sonata descritta nel racconto ripropone la struttura ciclica, con scambi ti temi tra i vari movimenti) una felice sintesi di quanto anzidetto.
Roberto Petrocchi