BIF&ST 16 - "La guerra di Cesare", la crisi della ribellione
Una favola sociale, un dramma contemporaneo in cui la provincia è la cornice per raccontare la crisi del lavoro e di un’epoca che non esiste più. “
La guerra di Cesare” è l’opera prima del regista sardo
Sergio Scavio, che racconta una storia di ribellione fallita, che parte da una miniera sarda che ha esaurito la sua potenzialità estrattiva e, di conseguenza, il suo ruolo sociale, ma non la sua forza metaforica. La storia parte da qui, dalla fine delle cose e da un popolo di lavoratori abbandonato. Da questo evento nasce il racconto di due amici lavoratori che vivono una relazione viva e complessa, fino a che la morte di uno dei due spingerà l’altro, Cesare (Fabrizio Ferracane) a cercare, in qualche modo, un senso di riscatto. Ne abbiamo parlato con il regista.
“La guerra di Cesare” trae ispirazione da “La vita agra” di Luciano Bianciardi, perché proprio questo romanzo?
“Il romanzo è stato il motorino d’avviamento del film e anche lo spirito guida durante la scrittura e le riprese perché incarna tante miei sensibilità, la prima era il racconto di un uomo in rivolta, che personalmente reputo più necessario ora di quando uscì il romanzo negli anni ’60, e anche un certo pessimismo di fondo. Bianciardi era fatalista e io penso di vivere in una terra fatalista come la Sardegna, dove niente può cambiare. Però dentro questo fatalismo si possono costruire tante cose, e io ho costruito la storia di due uomini che lavorano in una miniera che è esausta, non produce più nulla, vengono reimpiegati, però poi questa miniera viene venduta, e da là nasce l’atto di rivolta”.
C’è appunto un pessimismo di fondo in questo film, che ci dice che forse ogni forma di ribellione sia inutile, perché nulla cambia. Mi viene da pensare ai ragazzi di Ultima Generazione, alle loro proteste inascoltate…
“Ultima Generazione è uno dei pochi gruppi che tematicamente è votato alla ribellione, una ribellione educata, si ha paura di inceppare la macchina. Io faccio parte dell’ultima generazione di arrabbiati, ricordo come il 2001 ha cambiato i sentimenti generali, Genova 2001 e poi le Torri Gemelle, da lì niente è più stato come prima, c’è stata una sorta di narcolessia generale, è davanti agli occhi di tutti che il potere economico sia diventato di grande sostanza, detta qualunque regola”.
È un film grottesco che mi fa pensare ai grandi maestri del cinema impegnato, come Elio Petri, perché hai scelto di utilizzare questo genere? Secondo te il cinema sociale può ancora aiutare ad aprire le menti in qualche modo?
“Mi sono posto di fronte al racconto che volevo mettere in scena, ho pensato che siamo in un momento in cui il cinema violenta un po’ le emozioni dello spettatore, che a mio parere spesso viene messo all’angolo, io voglio aprire un dialogo con lo spettatore. Diceva qualcuno che la commedia è lo strumento per fare filosofia, io ho voluto uno strumento per pensare, per non psicologizzare troppo il film, ho cercato questa chiave di lettura attraverso i toni del grottesco. Hai citato Petri, un maestro, ma io cito anche Kaurismaki, che ha raccontato grandi tragedie con un tono diverso da quello che normalmente uno si aspetta da questo tipo di storia, risultando a mio parere più efficace”.
Ci sono molti momenti musicali nel film, hanno un significato specifico?
“A me piacciono i momenti in cui le storie si sospendono, quando accade solo quello che si vede, amo moltissimo i momenti di ballo e di musica. E poi volevo che Cesare avesse delle parentesi di libertà, che ballasse in forma anarchica, volevo che il pubblico potesse liberarsi ascoltando la musica e ballando insieme al protagonista”.
Fabrizio Ferracane interpreta Cesare, un attore che esteticamente sembra fatto apposta per i toni grotteschi…
“Cesare è nato su una persona che conosco davvero, una figura che ho utilizzato nei miei primi cortometraggi, un uomo piccolo, debole, quasi cieco, ma con un coraggio e una grinta senza pari. Ho cercato un corpo proletario come questo, Ferracane è uno dei migliori attori della sua generazione, fisicamente incarna il personaggio che ho scritto, il dubbio era se dopo aver interpretato spesso il cattivo potesse essere una persona che subisce. Lui ha dei toni della commedia come nessuno, e un corpo che bastava semplicemente mettere in scena, sono molto contento di aver lavorato con lui, è un talento raro, e spero che il film renda merito al lavoro che lui ha fatto”.
“La guerra di Cesare” è il tuo primo lungometraggio, hai scelto un genere non facile per un’opera prima…
“I motivi sono tanti, il primo è che ho 48 anni, ho sedimentato tanto cinema, sono insegnante di cinema, vedo e parlo di cinema tutti i giorni, quindi ho dei riferimenti a cui dovevo rendere omaggio. Poi onestamente trovo spesso le opere prime molto più conformiste delle opere dei grandi maestri perché si vuole piacere a tutti, e quindi si cerca di modularsi su delle opere che hanno avuto successo nei tempi passati. Io ho cercato un po’ di proteggermi da questo, sapendo che il mio obiettivo era raccontare nelle forme che io ritengo più opportune i temi che mi interessavano. Quindi non potevo non fare questo tipo di film che capisco che è un rischio, ma io ho sempre un’idea, che il pubblico sia meglio di come viene descritto quando gli si dà la possibilità di stupirlo, di vedere un’opera che non sia quella che normalmente gli si fa vedere. Secondo me ha anche tutte le caratteristiche per diventare un film popolare, non ristretto alla nicchia dei cinefili”.
27/03/2025, 17:40
Caterina Sabato