Sinossi *: Il porto di Genova è una linea dritta che segna il confine con l’acqua. Ogni centinaio di metri una lingua di cemento, larga circa un chilometro, si getta verso il mare. Sono le banchine: è lì che ogni giorno avvengono quasi tutte le operazioni, è lì che ormeggiano tutte le navi mercantili. Accanto, una distesa di container colorati, blu, rossi, verdi, gialli, spostati dalle braccia d’acciaio di gru mastodontiche, pilotate da uomini che appaiono minuscoli in questo sistema complesso di carico e scarico merci. E ancora carrelli elevatori, rimorchi, benne, stringitori, tramogge: tutti attrezzi di cui, con il tempo, si imparano i nomi e le funzioni, si riconoscono i suoni. Questo è il lavoro dei portuali.
Alcuni di loro, uniti sotto la sigla C.A.L.P. (Collettivo Autonomo Lavoratori Portuali) sono in riunione a discutere. Sottolineano la difficoltà del sindacato di ascoltare le loro richieste ed espongono gli ideali e le speranze del gruppo cui appartengono. Alcuni sono ancora molto giovani, ma già stanchi di parlare al vento. Affrontano ogni giorno dubbi e paure, ma è difficile farlo da quando il sindacato ha smesso di ascoltare le richieste del gruppo. Genova, un tempo in prima linea per le battaglie dei lavoratori, con il trascorrere degli anni si è fermata, dimenticando quanto ancora c’è da fare.
Riscopriamo il passato attraverso i più anziani del gruppo, ex portuali ed ex sindacalisti, che si ritrovano tutte le settimane al Circolo Portuale a discutere di cosa è andato storto nella storia per arrivare al precariato del mondo d’oggi. Ancora ci si ricorda di quel 30 giugno del 1960, quando in centomila sono scesi in piazza contro il convegno fascista. Questa memoria è la loro eredità, ma l’attenzione maggiore ce l’ha sempre il presente. Dal Porto emergono le istanze di un intero gruppo di persone e della storia collettiva delle lotte genovesi: quella contro il carico e scarico di materiale bellico destinato ai teatri di guerra del Medio Oriente, e che le mani dei portuali non vogliono toccare; quella alla ricerca di un sindacato che possa ascoltare e dare voce alle loro posizioni; la necessità di fare rete, nazionale e internazionale, con i restanti porti del Mediterraneo; l’emergenza di una pandemia globale che riorganizza il lavoro ma non tutela tutti i lavoratori.
Qualunque sia il tema, la risposta è nella compattezza della lotta, che trova forma nelle prassi dell’assemblea, del corteo, dello sciopero. Questo è il linguaggio trainante di una comunità che, costi quel che costi, non vuole in alcun modo fermare la propria protesta.