Note del film "Piovono Mucche"
Credo che l’idea base di Piovono Mucche sia stata quella di raccontare i personaggi disabili come persone non determinate dal loro handicap. Di solito l’handicap costituisce la caratteristica essenziale del personaggio: il suo problema è l’handicap. Credo che i miei personaggi abbiano tanti altri problemi e caratteristiche e poi siano anche disabili. Ma per raccontarli così bisognava superare le barriere di pudore che ci sono intorno alla disabilità. Non ce l’avrei mai fatta se non avessi convissuto per un anno con quelli che sono poi stati i miei attori, imparando da loro stessi a rapportarmi con leggerezza all’handicap.
E credo che avrei scritto un film diverso se avessi passato in comunità meno tempo di quello che ci ho passato. Nell’arco di un anno ho imparato che non serve conoscere teorie sulle varie forme di malattia o di disabilità: non è la patologia che descrive la persona. Ho imparato che ci sono infiniti “stili” diversi nell’essere disabile. Ci sono persone la cui personalità sembra determinata al novanta per cento dall’handicap e persone con handicap più gravi che ti fanno scordare di esserlo, fin dal primo momento. Poi, ed è un momento cruciale, scopri che i disabili non sono come li ha raccontati il cinema. Per chi si era nutrito del cliché del disabile “buono e pensoso” oppure “incazzato con il mondo” questo è un equivoco in cui si cade facilmente. Poi scopri che siamo tutti un po’ disabili. L’ultimo giorno scopri anche quanto è difficile andare via dal luogo in cui hai cercato di non passare un’ora più del dovuto per un intero anno. E anche per questo ci fai un film.
Il set
I disabili sono stati attori infaticabili, generosi e spesso meno capricciosi dei professionisti (escluso forse Marcello Sanna, il quale ha proprio tutti i pregi e i difetti di un professionista). Quando lavoravano c’era sempre qualcuno sul set, qualcuno della troupe, che si faceva prendere dal magone e cominciava a piangere di nascosto. Come i personaggi, anche gli interpreti del film hanno tanti problemi e caratteristiche, e poi sono anche disabili. Una delle cose che ho aspettato con maggiore gioia (e che poi mi sono gustato poco perché avevo troppe cose da fare) era poter spiare i ragazzi della comunità mentre venivano trattati da attori professionisti. Domenico al trucco, Marcello alla prova costumi… non si può immaginare quanto può essere faticoso far provare cento vestiti diversi a una persona che non può vestirsi da sola, anzi, cui è difficile far indossare qualunque vestito e richiede tutta una tecnica speciale. Per questo è stato importante che tutti i professionisti coinvolti fossero dotati di quella carica umana speciale che ti fa apprezzare un momento del genere. Non dico che
siano rari, ma esistono molte persone che a buon diritto si sarebbero spazientite.
La sceneggiatura
Circa un anno dopo la fine del servizio invece cominciai a ricontattare alcuni obiettori con cui c’era stata la maggiore intesa e a coinvolgerli in una difficoltosa opera di scrittura. La prima difficoltà consisteva nella montagna di materiale disponibile: se ne potevano fare cinque film. Poi nella eterogeneità dei punti di vista: ognuno aveva vissuto l’esperienza partendo da punti di vista e precedenti diversi e sorprendendosi di cose diverse. Marco Damilano vedeva negli obiettori le autentiche vittime, Marco Marafini era stato quello degli entusiasmi e dei grandi progetti, Filippo Bellizzi il pensoso filosofo e la persona che ricordando avventure con volontarie straniere di sé diceva “durante l’anno ho imparato a scopare in dieci lingue diverse”. Io ero quello più spaesato e decidemmo che poteva essere un buon punto di partenza: il pubblico si sarebbe sentito molto spaesato in un posto simile. Le nostre caratteristiche sono finite mescolate e ricomposte nei vari personaggi. Molto più in là, dopo il Premio Solinas e alcuni altri riconoscimenti, sono intervenuti due sceneggiatori professionisti, Mattia Torre e Massimo De Lorenzo. Anche loro erano stati obiettori di coscienza, ma in realtà completamente diverse e meno di frontiera. Tuttavia dopo la lunga frequentazione sembrava che fossero diventati anche loro obiettori ad honorem della comunità. Ma proprio per questo il loro apporto è stato fondamentale: nell’ultima fase di scrittura, che per motivi di costi e di opportunità narrativa ha finito per tagliare interi episodi a cui eravamo molto affezionati, il loro sguardo esterno è stato determinante.
Un concetto che ci ha guidato durante la scrittura è stato sicuramente quello della ingiudicabilità. Non volevamo esprimere giudizi sui comportamenti. Il tema del film credo che sia la difficoltà della convivenza e per noi tutti i personaggi hanno ragione di fare quello che fanno, perfino i più antipatici, perché dietro ogni verità ce n’è una più profonda.
La comunità
Un ringraziamento speciale credo vada alla Comunità Capodarco. La disponibilità nella realizzazione del film è stata totale, anche se i ritmi e le necessità di una lavorazione hanno comportato una serie di stravolgimenti della già difficile organizzazione del quotidiano. Il mio ringraziamento a loro è anche personale, perché l’esperienza della comunità mi ha cambiato la vita, sicuramente in meglio. Bisognerebbe fare un film più serio su come don Franco Monterubbianesi ha fondato la comunità negli anni sessanta. I racconti della situazione di totale mancanza di strumenti e di buona volontà hanno dell’incredibile. Per esempio che la prima attività con cui si autofinanziavano fosse quella di cucire scarpe: una comunità embrionale di persone che non camminano impegnata a cucire scarpe per una ditta marchigiana. Bellissimo. Anche se può sembrare strano l’esperienza della comunità non è dura
solo per chi li lavora o presta opera di volontariato, ma anche per i disabili. Anche per un disabile l’esperienza dell’altrui difficoltà può essere molto formativa. È un luogo dove chi non muove un muscolo ma ha la testa che funziona può svolgere un ruolo di responsabilità e aiutare concretamente persone che hanno maggiore mobilità ma minori capacità di organizzazione.
Gli attori
Tutti gli attori sono stati bravissimi, ma credo che una speciale menzione vada a Franco Ravera. La sua interpretazione di Franco mi faceva scordare, al montaggio, che non avevo a che fare con un vero disabile. Spesso mi ritrovavo a pensare a lui come a una persona reale e a emozionarmi per quanto era stata generosa nonostante la terribile malattia. E poi improvvisamente mi ricordavo che era un attore e che la sua generosità, veramente grande, era quella professionale.
I comunitari
Un tema a cui tenevo particolarmente era la sessualità delle persone disabili. Volevo rappresentarlo per quel poco che ne sapevo e cioè che spesso tutto avviene con grande semplicità, esattamente come per tutti gli altri. La verità e anche una certa crudezza erano indispensabili. Anche innamorarsi di una persona disabile è una cosa che succede con grande facilità. Forse un discorso a parte sono i veri legami duraturi. Sposare una persona disabile è un atto di grande responsabilità perché la persona disabile deve poter contare due volte sul coniuge non disabile. Però posso dire, anche se nel film non se ne parla, che è una cosa che succede di continuo e le coppie di questo tipo che conosco sono tanto solide quanto tutte le altre.
La commedia
La chiave di commedia credo sia stata la scelta più giusta che si poteva fare. Qualcuno mi ha accusato di non aver rappresentato l’aspetto vero della durezza di una condizione esistenziale di minorità ed emarginazione. Io non nego che quella condizione esista, ma è già stata rappresentata e mi sembra terribile che debba essere l’unica chiave in cui raccontare persone che sanno divertirsi e essere leggere. Del resto in un anno ho avuto molti scambi seri, ma la frase “Tu non sai cosa vuol dire essere disabili, non potersi alzare la mattina da soli, dipendere dagli altri in tutto ecc…” non mi è mai stata rivolta da nessuno. Forse perché erano tutti più impegnati a risolvere altri problemi (quelli di tutti, il lavoro, i sentimenti, la convivenza) o a crearne di originali. Il personaggio di Renato mi sembra emblematico in questo senso: è completamente alieno dall’idea di sfruttare la sua condizione per ricattare moralmente o far riflettere e non vuole saperne di cambiare. Semplicemente, come tutti, vuole delle cose e fa di tutto per ottenerle.
Gli obiettori
La condizione dell’obiettore è veramente paradossale: hai un sacco di responsabilità ma nessuna libertà; sei fondamentale ma non conti nulla; per un anno sei un punto di riferimento, ma tutti sanno che da un giorno all’altro sparirai; sai che l’esperienza finirà, ma proprio per questo vuoi viverla al cento per cento. Per esempio “l’ostruzionismo duttile” è un concetto strano, ma chi ha vissuto in realtà simili sa cosa vuol dire. Sa quanto è difficile accettare di avere dei limiti laddove sei indotto a trasformare tutto in un’esperienza totalizzante. Più che dagli altri devi difenderti da te stesso. Un altro tema che ci stava a cuore era quello di rappresentare una generazione di giovani che per una volta non sono insicuri, codardi e non sanno quello che vogliono. Che non riescano ad ottenerlo è un’altra faccenda. Mi piaceva che non si tirassero indietro, che non si fermassero al primo livello. Anche il più cinico e infingardo dei nostri obiettori non ha alcun problema con l’handicap in quanto tale. Ci tenevo più a rappresentare i diversi “stili” dell’aiuto, piuttosto che la difficoltà di fare il primo passo. In questo senso la scena della “cacca” è cruciale: se puoi sentirti in grado di fare ciò che fa il protagonista con l’emozione che ci mette allora puoi entrare nella storia. E nella comunità
Ismaele.
Il servizio civile
Sogno che molte persone credano alla lettera a ciò che cerco di raccontare e cioè che una vita del genere, anche per un periodo limitato, possa essere una esperienza esaltante e siano indotti a sperimentarla. Ammetto che è ancora più bello quando come nel mio caso vi si è costretti. Purtroppo, ed è strano che sia io a dirlo, i tempi cambieranno inevitabilmente. Mi piacerebbe una forma di servizio civile obbligatorio, ma non lo si può neanche ipotizzare. Ti fa rendere conto che esiste un fronte interno nella nostra società, che è quello dell’emarginazione, e che essere “soldati” su questo fronte interno è un modo per crescere nel senso di identità collettiva, di cose per cui vale la pena combattere.
Luca Vendruscolo15/02/2007