Note di regia del film "Movimenti"
"Movimenti": storie diverse che si intrecciano nell’arco di una notte, a Roma. Unite da un filo comune: la ricerca di qualcosa che non c’è. Utopie, amori, ossessioni: perdersi nella notte, senza meta, per sfuggire alla normalità. Per trovarsi. Un film generazionale? Forse, ma per paradosso: mettere in scena la generazione per dire che una generazione non esiste. Che è l’invenzione di un certo cinema, di una certa, pessima letteratura. I personaggi di "Movimenti" sono parte di una generazione invisibile, che sfugge agli schemi con cui in genere se ne parla: famiglia, coppia, collocazione politica nel senso più trito e banale, ceto sociale. Una generazione fatta di individui diversi, che non parlano il gergo della normalità mediatica, pieni di manie e strampalati progetti personali, che non si accontentano di sogni a buon mercato e dell’"essere realizzati": anarcoidi, inquieti, fuori da mode e nevrosi da magazine televisivo, che per quanto a casaccio, si muovono, pretendono di cambiare, vogliono essere felici. Personaggi sempre in bilico, spaventati forse, ma anche appassionati, non affascinati dal luccicare della superficialità, alla ricerca di qualcosa di comune, monadi che incontrano altre monadi, e con stupore si accorgono che nel fondo c’è qualcosa che li lega, un’intuizione del mondo in cui credere: è l’entusiasmo dell’incontro che li sospinge a veleggiare nella strana nottata del film.
Prima di tutto, "Movimenti" è un progetto collettivo: una piccola summa delle passioni e delle ossessioni personali dei registi e dei loro attori. Attori che sono diventati co-autori nel workshop che ha preceduto le riprese del film. Che si sono appropriati dei personaggi (che in alcuni casi erano già stati scritti su di loro) fino a fonderli con le proprie, personali attitudini e reazioni, portando le diverse storie ad un livello incandescente di verità contestuale. Attori che hanno abbandonato l’identificazione con
un “tipo” (“lo scrittore”, “il padre insoddisfatto”, “la ragazza innamorata”, ecc.), e attraverso il lavoro dell’improvvisazione hanno regalato ai personaggi un’identità unica, aggiungendogli spezzoni di se stessi, del proprio temperamento, del proprio modo di stare al mondo, con tutte le azioni e le reazioni ingiustificate tipiche della vita. Ci sono film che funzionano come un’inchiesta per un rapporto di polizia: lo spettatore è chiamato ad identificare alcuni sconosciuti, e le domande che deve porsi sono del tipo “perché il personaggio fa questo”, “chi è?”, e così via. Il modo di procedere di "Movimenti" è stato l’opposto: lasciare i personaggi alla loro libertà, alla loro incoerenza, a tutta la loro intensità. Quel che ci interessava dei personaggi non era il dramma della loro quotidianità, del quale ce ne sbattiamo più che mai, ma un momento particolare della loro vita, quello in cui si spezza la normalità e il senso sottile dell’alienazione e del tran tran. Il momento in qui qualcosa (un sentimento, una rivelazione, un dubbio o un semplice evento) rompe la monotonia dell’esistenza, e fa cadere la faccia indossata per una settimana.
Raccontare queste storie, per i registi e i loro attori, non ha significato dare vita a qualcosa di scritto, ma lasciare agire i rapporti esistenti tra le persone, per poi documentarli. Con un metodo di ripresa particolare: non a favore dell’inquadratura, ma “a rubare” quel che accade da tre punti di vista simultanei sempre presenti, di modo che gli attori non sappiano mai se sono ripresi in figura intera, in primo piano, o non sono ripresi affatto: e dunque, devono agire con tutto il corpo, senza difese o trucchi del mestiere. Tre punti di vista per cogliere azioni e reazioni di una serie di performance, al di là delle battute dette e delle espressioni in primo piano; per indagare nelle pieghe involontarie dei comportamenti e catturarne la nascita, abbattere la soglia tra emozioni del personaggio e quelle di chi lo agisce. Quello che volevamo cogliere, insomma, è quanto c’è dietro le parole e le situazioni. Non il dialogo, ma quello che non è possibile scrivere, e che sta prima, durante e attorno al dialogo: il modo, infinitamente più ricco, di sentire la vita, a cui le parole rimandano. E il montaggio, nella sua convulsa ritmicità, cerca allo stesso modo di afferrare la simultaneità di tutto quel che accade. Di non legare gli eventi in un racconto lineare (quello del rapporto di polizia), ma di decostruire e moltiplicare le prospettive di visione, riflettendo così quel sentimento di necessità di una liberazione che tentano i personaggi nelle loro vicende, contromano all’appiattimento imposto dalla socialità alla vita quotidiana, o alle difficoltà che derivano dal corpo a corpo con il destino.
Serafino Murri e Claudio Fausti