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Note di regia del documentario "Forse Dio è Malato"


Note di regia del documentario
Al di là del personale umano arricchimento di questa eccezionale esperienza, un film sull’Africa di oggi è stata per me, autore e regista, un’occasione unica, irripetibile: ho potuto utilizzare il mezzo d’espressione che è passione e mestiere di una vita, per schierarmi, in tutta umiltà e coscienza della relatività del contributo, con chi lavora perché il mondo prenda coscienza che la tragedia dell’Africa può trasformarsi in un disastro planetario. D’altra parte, almeno moralmente, il disastro, viste le responsabilità dell’occidente, ci ha già travolto.
Le persone colpite dall' Aids nell’Africa subsahariana sono salite in questi ultimi anni a quasi 25 milioni e mezzo e gli orfani a causa di questa malattia sono passati da 11 milioni e mezzo a 15 milioni.
E non si tratta solo dell' Aids. Non c'è rapporto, delle Nazioni Unite o di altre organizzazioni, che non ci dica di come siano stati fatti a volte più passi indietro che avanti, nonostante che in alcuni stati africani il prodotto interno lordo stia rapidamente crescendo: gli individui colpiti da fame cronica sono nel mondo 852 milioni e, fra i paesi con una percentuale di persone denutrite superiore al 35%, i primi sette sono africani. 20 milioni sono le mine sparse nel territorio (soprattutto in Mozambico e Angola). In nove paesi africani l’aspettativa di vita è scivolata sotto i 40 anni. Un bambino su sei, tra quelli che nascono nell'Africa subsahariana, muore prima di compiere 5 anni. Fame, guerra, malattia. Moltitudini che hanno poco o nulla, costrette a sopravvivere in una disperazione che sempre più diventerà rabbia e poi assedio e poi conflitto senza fine. In ballo c'è il futuro non solo dell' Africa, ma del mondo, la cui sicurezza e sopravvivenza dipendono esclusivamente dalla sconfitta della povertà.
Ma che fare con una cinepresa di fronte a tanta enormità. Quando Grazia Volpi, che ha sempre fortemente voluto questo film, mi propose di scriverne la sceneggiatura e realizzarlo, stavo per rifiutare. Ero impaurito e non mi sentivo all’altezza della situazione.
Ma fortemente coinvolto dalla passione, mai indulgente, che traversa tutto il libro di Veltroni, ho cominciato a documentarmi e sono partito per i sopralluoghi.
L’Africa mi ha preso e macinato.
E cominciando a vedere e a vivere i luoghi e le situazioni, ho cominciato anche a pensare che il compito del film non fosse quello di dare giudizi, ma solo di stare tra la gente e raccontare, dare voce alle loro storie. Tante storie, di miseria e di amore, di sofferenza e di rabbia, storie di vita contestualizzate al loro ambiente. Niente pietismo, niente sensazionalismo. E dare voce solo a loro, ai protagonisti veri, ai nati lì.
Un taglio da cinema-verità e al tempo stesso da cinema di “poesia” (e non nel senso certo del sentimentalismo).
Ma quando mi sono trovato di fronte agli occhi del bambino abbandonato dalla madre che si gonfiano di pianto (avevo io la camera in mano, stavo per gettarla via e nel film se ne intuisce il gesto in una rapido scarto della panoramica) o quando abbiamo incontrato i ragazzi accusati di stregoneria in Angola, o le donne sieropositive dei Memory Books in Uganda, ancora una volta mi sono domandato sgomento: cosa ci faccio qui? che diritto ho? a cosa serve? E allora mi sono forzato a ripetere, a ripetermi: sto girando un film, 90 minuti di film che devono solamente servire a far vedere proprio quello che sto vedendo e non vorrei vedere. Un film sull'Africa Sub-Sahariana. Sono qui per unirmi al grido di allarme di molti. Non sono qui a parlare di soluzioni o di speranza. La speranza mi sembra che qui assuma un significato diverso: è come posporre il presente in un futuro che forse non ci sarà. Questi bambini, queste donne non sperano, "desiderano", desiderano essere vivi, desiderano cibo, desiderano certo un'altra vita, ma subito, qui, ora. Ma è solo facendo vedere immagini come queste che le cifre crude e terribili del disastro acquistano improvvisa corporeità. E' dopo aver parlato con Ignacio, il bambino di 10 anni che nella discarica di Maputo raccoglie ferro e che non sorride mai e che ci ha mostrato, senza alcuna giocosità, il suo gioco dell'andare a piedi nudi sui trampoli fatti con due barattoli arrugginiti, che le cifre della miseria, della violenza, dell'Aids acquistano un senso.
"Forse Dio è malato" è stato detto da un prete di fronte a tanto orrore. E' il titolo che Veltroni ha voluto dare al suo diario di viaggio africano a cui questo film con grande libertà si ispira, ma a cui senz’altro lo accomuna lo spirito che lo traversa e che per me si condensa in ciò che è scritto quasi alla fine: "In Africa l'obiettivo non è essere felici, ma sopravvivere. Ma è una guerra. E l'Africa può perderla, per sempre”.
Ho pensato dunque ad un film che guardi strettamente al presente e non si arrampichi sugli specchi di un futuro a tutti sconosciuto, un film a suo modo didascalico, ma dotato di una cadenza drammaturgica e poetica – quella dell’alternanza tra storie e testimonianze, tra documentario e ricostruzione filmica – scandita nelle canzoni che “poeticamente”, appunto, interpuntano e amalgamano la diversa e cruda materia narrativa.
Avevamo pensato all’inizio di usare diverse cantanti donne, rappresentative dei vari paesi toccati, che cantassero alcune delle pur bellissime canzoni locali, ma alla fine ci è sembrato che ne potesse sortire un’operazione un po’ troppo “etno” e allora abbiamo reputato che era meglio ridurre il tutto ad un linguaggio unico e comporre una musica apposita che combinasse il sentire occidentale a quello africano. E poiché avevo scelto di abolire qualsiasi tipo di voice over che si sovrapponesse alla significanza esplicita delle immagini, abbiamo pensato che la forma “canzone narrante” fosse la più adatta a dare continuità a questo tipo di storia in cui, pur di ottenere l’impressione del grande affresco corale, si passa da un paese all’altro senza neppure specificare dove si è. E così io ho scritto i versi, ispirandomi ai modi di alcune loro ballate popolari. Giuliano Taviani e Carmelo Travia hanno composto magnificamente la musica; il senegalese Badara Seck l’ha arricchita di vocalità e sonorità nere. Infine la giovanissima cantante sudafricana Siya Makuzeni, grande rivelazione, ha adattato il tutto alla sua sensibilità e alla sua lingua sonante. Siamo arrivati così ad un risultato che mi rende veramente felice e ogni volta ancora mi emoziona.
Spero dunque, in questi 90 minuti di cinema, di essere riuscito a portare l’Africa, questa tragica Africa dell’oggi, alla soglia delle nostre coscienze alle quali il film si rivolgerà con le voci di dentro, quelle che vivono e raccontano la tragedia, e che - ad ascoltarle bene - non sono poi così straniere, né così lontane dalle nostre.

Franco Brogi Taviani