Note di regia del documentario "My Main Man
- Appunti per un film sul jazz a Bologna"
Veder rinascere qualcosa è sempre un’esperienza che ti scuote, anche al cinema. Il jazz festival più importante d’Italia tre anni fa è riemerso dall’oblio e ha acceso in noi innumerevoli pulsioni di ricerca; curiosità poi, che stanno alla base del mio personale incedere filmico. Un film di per sé è sempre la scoperta di un nuovo territorio, e in questo caso la luce che ti guida mette in evidenza un legame, un’innegabile connessione fra cinema, il suo vitale e disperato tentativo di fissare su un supporto magnetico il momento che fugge inafferrabile, e il jazz, che è l'arte dell’essere qui e ora per eccellenza, l’istantanea del momento, a tutti gli effetti una delle grandi arti del Novecento. L’idea è cercare di far rivivere come in una jam session semistrutturata l’età dell'oro di quel jazz moderno che a Bologna ha trovato un terreno così fertile da segnare un’epoca. Come? Per prima cosa con le immagini. Alla base c’è un mondo sommerso di immagini d’archivio, alcune delle quali inedite e mai montate, tra i migliori concerti jazz ripresi dalle telecamere della Rai e non solo, in un’evoluzione di luoghi e situazioni. Dunque il primo grande privilegio: adattare un patrimonio audiovisivo alla storia che abbiamo deciso di raccontare. Sovrapporsi agli scorci dell’oggi. Facce a confronto con quel che erano e soprattutto storie, angoli di muro e vedute panoramiche di una via, il passo breve tra Bologna e New York, dalle cantine ai grattacieli di Manhattan volgendo lo sguardo ad Harlem. Ancora un’immagine che emerge, aleggia ma non necessariamente si mostra: un gruppo di ragazzi sotto un portico in inverno. Tendono l’orecchio a una grata. Ascoltano un suono magico che arriva dal basso. Un suono che non sanno decifrare ma che li attrae. Vogliono entrare e conoscerlo...
Germano Maccioni