VENEZIA 71 - "La Zuppa del Demonio": il sogno di una generazione
“Le cose che oggi ci appaiono orribili, allora ci sembravano bellissime, erano tempi irripetibili e felici. C’era una sorta di patriottismo del miracolo”, scriveva
Giorgio Boccanel 1964 in “Miracolo all’italiana”, una sorta di reportage attraverso l’Italia del boom economico, una società desiderosa di lasciarsi alle spalle gli spettri del passato e che sta brutalmente trasformandosi da una civiltà agricola ad una industriale nel nome del progresso.
O meglio l’utopia del progresso, come sottolinea
Davide Ferrario, regista del documentario fuori concorso "
La Zuppa del Demonio." Il termine è stato coniato da
Dino Buzzati per descrivere le lavorazioni nell’altoforno de Il Pianeta Acciaio, un documentario del 1969 che può considerarsi un manifesto dell’industrializzazione e delle enormi aspettative che creò all’epoca e che non a caso si apre con un’immagine scioccante per la nostra sensibilità attuale: la distruzione di un uliveto centenario per fare posto alla fabbrica dell’acciaio che oggi porta il brand dell’Ilva.
Con un montaggio efficace che alterna immagini dei documentari del cinema industriale, oggi in buona parte conservati dall’Archivio Nazionale Cinema d’Impresa d’Ivrea, e citazioni letterarie, Ferrario restituisce con impressionante vividezza il grande sogno di un’intera generazione ai tempi un cui si affermava il paradigma dello sviluppo industriale senza limiti e condizioni. Sono anni di indiscusso ottimismo che aveva il suo fondamento nella fiducia incondizionata nelle possibilità della scienza. Perché “il progresso ha sempre ragione”, assicura il manifesto futurista di
Filippo Tommaso Marinetti, è la promessa di una società più giusta, di una vita migliore, di benessere per tutti.
Eppure il regista si tiene alla larga dalla retorica del discorso politico e sociologico sull’addomesticamento brutale del mondo ecologico, lo sfruttamento di operai senza tutela, l’alienazione uomo macchina, le sofferenze degli emigranti, e prova a cogliere l’entusiasmo e “il senso di energia, talvolta irresponsabile ma meravigliosamente spericolata verso il futuro”, con cui è cresciuta l’Italia durante il processo di industrializzazione, dal ventennio fascista, con il Duce che inaugura i nuovi stabilimenti di Mirafiori, fino a oltre il boom degli anni Sessanta.
Così sullo schermo scorrono i ritratti brevi ma intensi di lavoratori lungo la catena di montaggio Fiat, dipendenti della Olivetti, operai impegnati nella costruzione di dighe, ponti, strade d’Italia. Tutti accomunati da un “sentimento di fierezza per appartenere a un’azienda, a un gruppo, a un popolo, a un’entità umana che produce una trasformazione storica”, per dirla come
Ermanno Olmi, che nel cinema della fabbrica ha mosso i suoi primi passi da regista.
Su questo sfondo si capisce l’oscuramento totale subito per molto tempo dagli effetti negativi dell’industrializzazione e l’isolamento di coloro che hanno manifestato le prime delusioni nei confronti di una realtà che cresceva sempre più complessa e meno governabile di quanto si credeva. “Nei primi anni sessanta, a causa dell’inquinamento dell’aria, sono cominciate a scomparire le lucciole”, racconta la voce narrante sulle parole di Pasolini, mentre Marcovaldo di Italo Calvino, che con le tasche vuote portava la famiglia al supermarket, riflette la natura ambigua del progresso che ha accompagnato tutto il secolo scorso.
“Almeno fino alla metà degli anni 70 quando è arrivata la crisi petrolifera e contemporaneamente hanno preso piede le preoccupazioni ambientaliste”, conclude Ferrario, quando comincia a perdere credibilità l’idea di una natura perfetta, intangibile alle offese dell’uomo, che può essere sfruttata liberamente in ragione delle sue potenzialità illimitate.
01/09/2014, 22:10
Monica Straniero