Note di regia de "I Ricordi del Fiume"
Nel Platz, la baraccopoli protagonista de “I ricordi del fiume”, avevamo ambientato alcune scene del nostro film di finzione "Sette opere di misericordia", e in un altro luogo avevamo ricostruito parte del Platz cercando di astrarlo, di renderlo più "universale" e simbolico.
Con il passare degli anni abbiamo visto il Platz crescere, a poche centinaia di metri da casa nostra, dietro la fitta boscaglia che lo separava dalla strada, dalla città. Stretta tra il fiume Stura e, dall’altra parte della strada, il gigantesco complesso industriale della Fiat Iveco, la baraccopoli si stende per circa due kilometri nascosta da collinette di rifiuti, arbusti e piante. Questa porzione di città invisibile è il nucleo del racconto, che poi s’irradia, a seguire di volta in volta i percorsi quotidiani delle persone che affollavano la baraccopoli, lungo la strada tagliata dal continuo passaggio delle automobili.
Per noi, entrare dentro, conoscere le persone che lo abitavano, voleva dire filmarle. E viceversa: filmare era come conoscerle. Ma questa volta filmare il vero, o almeno quello che a noi si offriva.
Quando abbiamo saputo dell’avvio del processo di smantellamento del Platz abbiamo deciso di addentrarci nel quotidiano dell’ultimo anno e mezzo di vita di questo labirinto di baracche.
Nel percorso di conoscenza e di riprese, abbiamo compreso che non si trattava tanto di documentarne la cronaca, quanto piuttosto di raccoglierne i ricordi e salvarne le impressioni come in un impossibile atto di resistenza, di trattenimento delle immagini, della dignità, delle parole e dei gesti.
Mano a mano che diventava anche il nostro luogo, e che al contempo si svuotava, si distruggeva e moriva, abbiamo innanzitutto trovato persone. Anziani, giovani e bambini. Famiglie in una continua lotta per la sopravvivenza. Abbiamo trovato tanta vita, e tanta morte. Nel corso di un anno e mezzo di riprese, sono molte le persone che sono morte, come Gabo e Petru. E tanti i neonati venuti alla luce: il ciclo della vita, nel passare delle stagioni, era per noi raccolto, racchiuso in quell'intrico di baracche costruite una sull'altra su più livelli fino al loro degradare verso il fiume.
La prima volta in cui siamo entrati, con camera e microfono, è stata una notte di febbraio. Subito ci hanno accolto i ragazzi, più o meno nostri coetanei, in qualche modo già incrociati nel quartiere in cui viviamo anche noi. Era forse la prima volta che qualche non abitante del Platz vi entrava di notte. E da quel momento non abbiamo smesso di filmare, di vivere, con loro. Molti abitanti, ormai ex abitanti del Platz, sono rimasti amici. Spesso li incontriamo per caso, per strada tra i bidoni alla ricerca di oggetti e rifiuti da rivendere al mercato, oppure al mercato stesso: ogni weekend sono i primi ad arrivare nelle varie piazzole e i primi ad andare via quando ormai gli affari più grossi sono terminati, in tarda mattinata. Spesso andiamo a trovarli agli angoli dove mendicano, o nelle loro nuove case, dove hanno ricreato, in moderni monolocali tutti uguali, le dinamiche e la vita del Platz, seppure con le dovute differenze, non sempre positive.
La maggior parte delle famiglie che abitavano il Platz provengono da tre zone della Romania: Bacau e i villaggi attorno, Hunedoara e la sua regione di vecchie miniere ormai dismesse, e il Caras Severin. Parte del nostro lavoro di realizzazione de I ricordi del fiume si è svolto in quest'ultima regione, il Caras Severin. Nelle scelte di montaggio, alla fine nessuna immagine girata in Romania è rientrata nel film, a malincuore. Ma restano vivi in noi gli incontri "nell'al di là" romeno: i villaggi di Greoni, Oravita, Gradinari, puntellati di case un po' più confortevoli delle baracche torinesi, ma in altrettanta se non peggiore situazione di povertà e precarietà della vita. Minimi i mezzi di sussistenza, spesso basati sul poco racimolato in Italia. Nulla da coltivare, nulla da comprare o vendere, nulla da mendicare. Per loro la vita vera è qua, a Torino. E il Caras è un angolo che parla italiano. Una sera, stavamo bevendo una birra al caldo di un bar, nella periferia di Oravita, per riposarci dalla giornata di riprese. Mentre parlavamo, in italiano, tre ragazzi più o meno coetanei ci hanno chiesto se venivamo da Torino. Loro erano là per "vacanza", in visita ai vecchi. Ma la loro vita era a Torino, al Platz o in altre situazioni abitative altrettanto provvisorie, un altro campo.
Tra coloro che abbiamo deciso di filmare per diversi mesi, un po' per maggiore disponibilità, un po' per naturale corso della vita, per gli incroci quotidiani o per il caso, ci sono alcuni che sono stati rimpatriati e ora sono nei loro villaggi di origine, ma forse sono già ripartiti: tornati in Italia, magari non più a Torino. Come Ion, che nel film ha solo una scena, ma di cui abbiamo ore e ore di film. In Romania non c'era più, lo abbiamo trovato nella periferia di Milano, in uno stabile occupato da famiglie Rom, romeni poveri e italiani in rovina. Siamo andati con la camera, volevamo filmarlo: alla fine lo abbiamo solo abbracciato. La revedere, ci siamo detti sorridendo, un po' tristi tutti.
Non siamo diventati invisibili. Questo non si può dire. Semplicemente c'è stato uno scambio: fare questo film, per noi (come del resto fare qualunque documentario), voleva dire trattenere i ricordi, dare un'opportunità in più alla vita di essere ricordata. Voleva dire presentare un luogo vittima di pregiudizi come è nella realtà, o almeno più vicino alla sua realtà, rispetto all'immagine stereotipata dei giornali, dei politici in continua propaganda.
Questo luogo simbolico e cruciale delle nostre periferie, ora destinato a dissolversi nel nulla, di volta in volta è stato il capro espiratorio delle nostre mancanze, o carne pronta per il macello delle campagne elettorali, per inutili e dannosi interventi “di emergenza”.
Il cinema può andare oltre questa immagine comune, viziata dai vari opportunismi. Il cinema documentario, grazie alla costanza, alla presenza, alla vita, alla compassione, può davvero riscattare l'immagine degli ultimi. Anche solo per il fatto che ha l'ambizione, quando riesce a restituirne la dignità, di raccontarne la vita con sguardo libero e vicino. Filmare il Platz per noi è stato un tentativo di andare in questa direzione.
Con il passare delle stagioni, ai nostri occhi il Platz si faceva sempre più metafora dell’esistenza stessa, della sua caducità e della sua bellezza.
La raccolta di questa specie di found footage di vite è un insieme di specchi frammentati e sospesi che lottano insieme per ricostruire questa comunità invisibile.
Il film è costruito come un accumulo di “ricordi”. Nel labirinto dalle strane e sghembe asimmetrie, nelle drammatiche fughe prospettiche create per caso dalle costruzioni fai-da-te, si affacciano e si aprono mondi, volti, storie potenzialmente infinite. Parole, suoni, televisori, grida di bambini e confessioni intime, sussurrate.
Il documentario vuole essere questo racconto epico e intimo, violento per la natura stessa del soggetto (un luogo in via di sparizione) e dolce e affettuoso per la confidenza che, piano piano, abbiamo creato con i ragazzi e le famiglie incontrate.
Teso tra la nostalgia, l’incertezza e la paura del futuro, I ricordi del fiume è anche un ritratto che gli stessi abitanti faranno di sé, un autoritratto catartico che ha, passo dopo passo, il loro volto e il loro sguardo.
Il film ha una struttura “rizomica”: una rete intrecciata di vie, in cui ogni punto è connesso ad altri, dove si possono costantemente creare nuove linee di fuga, nuovi punti di tangenza d’identità e di storie.
Al centro del tessuto iconografico e narrativo è la casa, come focolare e “fuoco” del guardare, del senso di avere e perdere del quotidiano, del vicinato. E poi ci sono madri, figli, amori giovani e vecchi, ascolti, pettegolezzi e voci, protezioni e pericoli, legami e affetti, preghiere.
Si è tentato di raggiungere una “profondità di campo”, sonora e visiva, di volta in volta claustrofobica e infinita, dal microcosmo della baracca agli squarci di prospettiva che danno sulla città, lontana, al di là del fiume e coronata dalle montagne e dalla riconoscibile collina di Superga.
Il film scorre attraverso i volti, sdentati e segnati da rughe, sporchi e bellissimi, alle nature morte che prendono forma proprio fuori (dal) campo, tra le macerie e i rifiuti, nell’ordine sghembo ma affettuoso delle case. Da questa sorta di horror vacui che ci ha accolto fin dal primo sopralluogo, si arriva imprescindibilmente alla “vacuità”, al vuoto della baraccopoli rasa al suolo, al deserto del terreno sgomberato, appiattito, strappato.
L'immersione nella vita del campo, delle sue famiglie, dei suoi oggetti e dettagli, dei suoi gesti e dei suoi sguardi, delle sue preghiere e delle sue risate, non può che registrare la violenza della sua sparizione. Ma lo sguardo dei protagonisti su loro stessi e sul Platz ci sorprende con un atteggiamento ludico e ironico: il Platz è una palla che si illumina di colori a intermittenza, nel buio; è una piccola morale impartita da un bambino a un adulto uscito da poco dalla prigione; è una fiaba raccontata da una trasmissione radio, ascoltata da un vecchio che fa le valigie nel momento in cui le ruspe stanno distruggendo tutte le baracche; è una canzoncina della buonanotte cantata da una giovanissima madre al suo bambino.
Gianluca e Massimiliano De Serio