Note di regia di "Piccolo Corpo"
Nel 2016 scoprivo che a Trava, nel mio Friuli Venezia‐Giulia, esiste un santuario dove, fino alla fine del 19° secolo, avvenivano miracoli particolari: si diceva che lì si potessero riportare in vita i bambini nati morti, per il tempo di un respiro. Il miracolo del ritorno alla vita era necessario per battezzare i bambini, altrimenti destinati ad essere seppelliti nelle zone incolte, come si fa con i gatti. Senza battesimo non avrebbero mai avuto un nome e un'identità, la loro anima avrebbe errato eternamente nel Limbo. I santuari di questo tipo portano il nome di à répit, del respiro o della tregua, erano presenti in tutto l'arco alpino – solo la Francia ne contava quasi duecento – ed è impressionante come questi fatti siano pressoché sconosciuti, nonostante la dimensione del fenomeno. La storia di questi miracoli si è impigliata in qualche anfratto dentro di me ed è rimasta lì a chiedere attenzione. Una cosa in particolare mi aveva colpito: erano principalmente gli uomini a viaggiare verso i santuari con i piccoli corpi degli infanti. Certo, le puerpere erano allettate, ma non mi rassegnavo all'attesa impotente a cui erano costrette. A Elisa Dondi e Marco Borromei, i coautori, che avevano deciso di proseguire con me il viaggio iniziato con La santa che dorme, la prima domanda che ho posto è stata: che ne è di questa donna nel letto? E se invece volesse andare lei stessa? Così abbiamo iniziato a scrivere, con due sole certezze: lei si chiama Agata e la pancia che indossa è una prima volta. Quando la bambina nasce morta, Agata dovrebbe elaborare il lutto. Ma mentre tutti gli altri intorno a lei sembrano andare avanti, lei non ci riesce.
Per me la parte più bella di una storia è quel momento di vita in cui il personaggio compie una ribellione. Quella di Agata ha un che di scandaloso, perché presuppone orgoglio e protesta non solo nei confronti della religione, ma pure delle leggi di natura. C'è un momento preciso, solitamente di notte, in cui di colpo le possibilità di fronte a noi diventano una sola ed è lì che si fa il destino. Agata decide di ascoltare le voci che parlano dei miracoli, segue il suo istinto e si mette in viaggio con sua figlia in una piccola scatola, all'insaputa di tutti i suoi cari. È sola. La pratica di far resuscitare i putti era ovviamente mal vista dalla Chiesa, perché considerata abuso di sacramento e paragonabile alla stregoneria. Agata affronta un viaggio ai confini di ciò che non conosce, abbandonando le proprie radici, rischiando di perdere sé stessa e la propria vita. Il suo desiderio cosciente è dare un nome a sua figlia per poi potersene separare, ognuna fattasi entità distinta. Ma in realtà questo viaggio è un modo per prolungare quella condizione di simbiosi che Agata aveva condiviso per mesi con sua figlia, una sorta di continuazione della gravidanza, in cui il ventre si sposta metaforicamente sulla schiena, divenendo il peso che porta sulle spalle. Il suo viaggio è fisico, ma diventa trascendentale. Agata non si accorge che per perseguire la sua missione deve trasformarsi, farsi morta tra i vivi. Le serviva un compagno di viaggio, ed è così che è nato il personaggio di Lince. Selvatico, furbo, impedisce agli altri di entrare, perché amare ti compromette, ti indebolisce.
Lince mostra ad Agata la strada offrendole protezione, ma ciò che ha in cambio da lei è qualcosa di altrettanto necessario per la sua sopravvivenza: il profondo senso di attaccamento a ciò che si ama. Il restare, il sacrificio, il senso di appartenenza a qualcosa che non si può controllare e che rende vulnerabili. Grazie all’incontro con Agata, Lince si riappropria di quella parte di sé che appartiene all’archetipo femminile e che ha il coraggio di accettare anche la parte oscura dell’amore: il dolore. Ho ambientato il film nella mia terra – il radicamento nel territorio non significa che questa storia sia di quel luogo, le storie secondo me sono uguali dappertutto – girando in continuità cronologica e quindi compiendo lo stesso viaggio di Agata, dalla laguna di Caorle e Bibione alle montagne della Carnia e del Tarvisiano. Il film è cresciuto con noi e noi con lui. Mentre cercavo i luoghi, incontravo le persone che sarebbero diventati i personaggi del film, o forse viceversa, del resto non si può prescindere gli uni dalle altre. La quasi totalità del cast è composta da persone che non avevano mai recitato prima, in alcuni casi famiglie intere. Anche per questo motivo, non solo per restituire una verità linguistica del tempo, ho deciso di girare in dialetto veneto e friulano, ognuno nelle sue diverse variazioni, perché volevo il più possibile permettere alle persone di esprimersi nel modo a loro più naturale. Il processo di italianizzazione forzata iniziata nella seconda metà dell'800 e proseguita sotto il fascismo, operazione politica per esercitare il controllo sul territorio e causa di grande impoverimento culturale, non è per fortuna riuscita a estinguere del tutto la varietà dei diversi idiomi.
Per me il dialetto è un arricchimento prezioso e spesso commovente: basti pensare che in friulano per dire bambino si utilizza la parola frut, perché è il frutto dei suoi genitori. Per motivi diversi e spesso lontani dalla specificità della vicenda narrata, tutte le persone coinvolte hanno trovato qualcosa di sé nella storia e nelle tematiche evocate. È così che ci siamo spesso ritrovati a parlare più di vita che di cinema, a imparare gli uni dagli altri: ora ero io a dirigerli e ora erano loro a guidare me. La trasversalità è la forma più bella del creare. Nel film Dio non è nel miracolo e nelle preghiere, né nel dogma che divide in paradiso/inferno/limbo. Dio esiste a un altro livello: in Lince che non crede a niente e così sfugge alle premesse iniziali del miracolo; in Agata che organizza la rabbia per ridisegnare i confini del possibile; nel rapporto di queste due solitudini che per un momento si fanno meno dolorose. C'è una linea sottile che divide vita da morte, realtà da magia, le possibilità in cui abbiamo sperato e il tempo che ci è rimasto. Spero che il film crei uno spazio di condivisione ulteriore, senza la presunzione di trovare risposte assolute, per abitare insieme il dubbio.
Laura Samani