YOON C. JOYCE - “La recitazione, il mio riscatto”
Nato in Corea del sud, a Seul, adottato a tre mesi da una famiglia bergamasca,
Yoon C. Joyce, classe 1975, è uno dei caratteristi italiani più proficui al cinema, in tv e a teatro dal 1993 fino a oggi. Da “S.P.Q.R.– 2000 e ½ fa” di Carlo Vanzina, a “Nirvana” di Gabriele Salvatores, e poi in serie come “Camera Cafè”, “Rex” e “L’allieva”, fino a essere diretto da due grandi maestri del cinema internazionale come
Martin Scorsese e Ridley Scott.
Per Yoon, vittima sin da adolescente di razzismo e bullismo, farsi valere in una società e in un ambiente lavorativo che lo ha relegato per tanti anni a ruoli macchiettistici non è stato facile. Ce ne ha parlato nella nostra intervista, insieme ai suoi imminenti progetti come la serie "
The Net – Gioco di squadra", il 20 e 27 dicembre, e il 3 gennaio in prima serata su Rai 2, e disponibile su RaiPlay, e la serie spagnola “Paraiso” che arriverà prossimamente anche in Italia.
Chi interpreti in “The Net”?
“La serie è una co-produzione italiana, tedesca e austriaca, è divisa in tre capitoli, ognuno racconta una storia diversa ed è fruibile in maniera indipendente, ma tutti sono accomunati dallo stesso tema, il calcio, e dalla volontà di raccontarlo in maniera originale. In ogni capitolo si racconta il calcio secondo la propria storia. Questi tre blocchi però tra di loro sono uniti da alcuni personaggi. Questa è la prima volta che viene serializzata una storia sul calcio in questo modo, ci sono tante sottotrame che raccontano anche il lato oscuro delle partite, ricatti, calcioscommesse, cose di questo genere. Poi viene analizzato anche l'aspetto più competitivo, tecnico, si parla di sacrificio per poter realizzare il proprio sogno, di persone che si mettono in gioco e che quindi danno tutto per poter arrivare a diventare qualcuno nel mondo del calcio. Il mio personaggio all’interno di questa storia è Zhang, sono il figlio di questo grosso imprenditore cinese che arriva in aiuto del Presidente Tessari del Toscana Football Club, seconda squadra della città di Firenze, interpretato da Massimo Ghini, e che è sull’orlo del fallimento. Tessari ha un figlio, Vincenzo, che cerca di tenere testa al padre, ma in realtà non ha le competenze per farlo, fa solo disastri e spesso è sotto l’effetto di droghe, e quando Zhang entra in gioco si scontra con Vincenzo, anche fisicamente. Il mio personaggio è nato e vissuto in Italia e non mancano le occasioni in cui rimarca questa cosa, come spesso faccio io, perché in Italia c’è ancora molta ignoranza in questo senso, è difficile considerare un asiatico cresciuto in Italia un italiano”.
Immagino sia stato difficile convivere con questa mentalità…
“Ha determinato tutta la mia vita e la mia carriera, ho avuto un sacco di problemi legati purtroppo al razzismo. Io sono coreano adottato da una famiglia italiana, avevo tre mesi quando sono arrivato in Italia, lentamente si sta sbloccando qualcosa ma è ancora difficile per molti considerarmi italiano. Ho cominciato ad avere questi problemi quando intorno ai 16 anni con la mia famiglia ci siamo trasferiti definitivamente in Italia, prima mio papà lavorava all'estero, quindi dai 4 anni fino ai 16 anni circa ho vissuto prevalentemente in contesti internazionali, ho vissuto in Arabia Saudita per tre anni, in Algeria, in Africa, in Austria, in Germania. Sono sempre stato a contatto con una realtà multietnica, quindi immagina quando mi sono trovato in una realtà piccola come
Bergamo. È stato un massacro totale, per anni ho maturato l'idea di essere un errore, un difetto. Fondamentalmente in Italia eravamo pochissimi asiatici alla fine degli anni ‘80, inizi ‘90. Abbiamo fatto un grande salto in questi ultimi trent'anni, ma c’è ancora molto da fare”.
Quando hai cominciato a recitare?
“Io ho cominciato questa professione per questo motivo, perché dopo essere stato bullizzato, dopo essere stato picchiato non so quante volte, avevo come evasione il teatro, facevo teatro per ragazzi, mi è sempre piaciuta la recitazione, sono sempre stata una persona molto creativa, disegnavo e dipingevo. Poi mi sono reso conto che la recitazione poteva diventare qualcosa di più e quindi ho cominciato presto a muovermi in qualche modo anche perché in famiglia purtroppo non ho registi o gente appartenente al mondo dello spettacolo, anzi mio padre mi ha sempre ostacolato in questo mio obiettivo. Però a 16 anni avevo già partecipato a quattro, cinque programmi televisivi, e avevo fatto già delle piccole esperienze sul set di spot pubblicitari”.
Com’era l’atteggiamento degli addetti ai lavori?
“Mi rendevo conto che per un “personaggio” come me anche nel settore dello spettacolo non c'era posto. Gli addetti ai lavori purtroppo erano impreparati, perché era come se fossi in anticipo sui tempi, era troppo presto, e io di questo non me ne rendevo conto, ci soffrivo soltanto. Inizialmente hanno cercato di sfruttare delle mie peculiarità che derivano anche dal fatto di parlare dei dialetti, come il bergamasco, e ho fatto questa cosa in alcuni programmi comici come “Mai dire Gol” o “Re per una notte”. Però sono stato io a rendermi conto che questo non mi portava da nessuna parte”.
Come ti sentivi in quelle vesti? Ti sentivi un po’ trattato da “macchietta”?
“Sì, perché inizialmente purtroppo io non avevo un referente, qualcuno che mi desse dei consigli. Non avevo dei punti di riferimento, io studiavo teatro, facevo le mie cose, facevo spettacoli per ragazzi, punto. Dall'altra parte cercavo invece di farmi conoscere, di fare questi casting, ma i casting director non sapevano cosa farmi fare, non c’erano ruoli per me. A un certo punto avevo trovato anche un’agenzia ma continuavano ad arrivarmi dei ruoli marginali, stereotipati, perché cominciavano ad arrivare i primi cinesi in Italia, cinesi, non coreani, e quindi per un certo periodo sono stato obbligato a interpretare queste parti da cinese immigrato clandestino, venditore di accendini, che parla con la l al posto della r. A un certo punto ho detto basta, non ce la facevo più, era troppo frustrante, e me ne sono andato negli Stati Uniti, ho vissuto per i primi tre anni a Los Angeles, durante il giorno lavoravo sul campo di golf come caddy, la sera in un ristorante italiano dove pulivo il pesce, e nel frattempo studiavo anche recitazione. Ho cominciato a fare delle audizioni, a lavorare per piccoli film indipendenti americani. Poi mi sono trasferito a New York perché ho vinto una borsa di studio, ma poi arrivato l'11 settembre sono stato obbligato a tornare in Italia. Qualcosa era cambiato, le produzioni italiane avevano scoperto nel frattempo la mafia cinese, arrivavano i primi ruoli un po’ diversi, ingaggi per “Rex”, “Distretto di Polizia”. Poi sono iniziate ad arrivare proposte anche dall’estero molto interessanti che mi facevano capire che non ero io limitato ma era l’Italia che mi aveva limitato”.
A un certo punto sono arrivati due grandi maestri: Martin Scorsese e Ridley Scott.
“Per Scorsese ho lavorato in “Kundun” e “Gangs of New York”, non sono delle parti grandissime: in “Kundun” ero un soldato dell'esercito cinese che arriva in Tibet alla ricerca del Dalai Lama per ucciderlo. In “Gangs of New York” ero un prigioniero di guerra che poi aiuta il personaggio interpretato da Leonardo Di Caprio a cercare il Macellaio (Daniel Day-Lewis). Questa è stata una parentesi che però mi ha dato la possibilità di conoscere Scorsese e ovviamente di parlarci, di stare insieme. È una persona molto umile, professionalmente un incredibile regista, è più “accessibile” inizialmente, ad esempio, rispetto a Ridley Scott, che ha questi occhi molto sottili, azzurri, che ti fissano, e incute timore. Ho trascorso più di un mese sul set con Scott, mi ha scelto per la parte di un prete nella serie “The Vatican”, e ho scoperto una persona incredibile. Per lui ho fatto un provino che è durato un’ora, mi ha fatto ripetere una scena almeno 20 volte, pensavo di non essergli piaciuto. Invece è andata benissimo, ho avuto a che fare con una realtà totalmente diversa da quella a cui ero abituato sui set italiani, c'era una grande preparazione, mi sono trovato Bruno Ganz da una parte, Rebecca Ferguson e Ewen Bremner dall’altra. Scott ha una carica incredibile, io quell’uomo l’ho adorato, ti gratificava, ti caricava, ti diceva che stavi facendo un ottimo lavoro. È un regista che ti sprona a fare meglio, si confronta con gli attori, chiede la loro opinione riguardo la scena, una cosa che fino a quel momento, ad esempio, mi mancava sui set italiani, avevo sempre ricevuto ordini”.
Invece nelle produzioni italiane cosa ti auguri per te stesso?
“L’Italia vende poco all'estero, i prodotti italiani sono molto nazionali, si esauriscono nel nostro circuito, ma perché non hanno delle storie internazionali, tant'è vero che non c'è un cast internazionale, nei film italiani sono tutti bianchi, e se ci sono attori, per esempio, di colore hanno una parte secondaria, mai principale, e di solito fanno sempre ruoli negativi. Il cinema per anni ha dimostrato anche di essere stato in grado di farsi anticipatore di alcuni pensieri, di alcuni cambiamenti socio culturali, e il cinema americano ce l'ha dimostrato più di una volta. Vorrei, nel mio caso, che si scardinasse un po’ il vecchio preconcetto degli asiatici che parlano tutti allo stesso modo, che si scardinasse questo luogo comune “all'italiana”. Hai mai visto un asiatico in un film italiano che fa una parte principale, dove parla italiano, dove magari ha una storia d’amore? Potrebbe fare il medico, il poliziotto, non lo vedi ancora, non c’è. Io ho questa cosa dentro, questo desiderio di riscatto in Italia, molti cominciano a fare questa professione per tanti motivi, chi per soldi, chi per notorietà, credimi, il mio obiettivo principale è arrivare al giorno in cui non diranno più “ah Yoon, quello asiatico”, ma “Yoon quello bravo!”. Ti giuro quello è l’obiettivo più grande”.
Prossimamente ti vedremo in una serie spagnola che ha avuto molto successo all’estero…
“Sì, si intitola “Paraiso”, è stato uno dei lavori più importanti della mia carriera. Siamo nella Spagna degli anni ’90, scompaiono tre ragazzine senza lasciare traccia, la polizia brancola nel buio, improvvisamente arriva questa squadra capitanata dal mio personaggio, un tenente di ricerca specializzato in omicidi e persone scomparse che prende il comando di questa stazione di polizia. Sono quindi uno dei protagonisti. Quando mai si è visto in Italia un poliziotto tenente asiatico? Io ho all’attivo circa una quarantina di film, poi se aggiungiamo le fiction e le serie sono una settantina di lavori, ma i lavori più intensi li ho fatti negli ultimi anni. E quindi sono molto contento di questo ruolo, sono l’unico attore italiano di tutta la serie, è già disponibile negli Stati Uniti, in Canada, Cina, Brasile, Messico, Spagna, in teoria quest'anno dovrebbe essere distribuita in tutto il mondo da HBO. Spero arrivi presto in Italia”.
23/12/2022, 15:03
Caterina Sabato