Note di regia di "Profeti"
Prigionia, diritti delle donne, Medio Oriente, religione, scontro di civiltà, sono questi i temi della mia indagine: lo strumento è il cinema. Un cinema inteso come “viaggio” che svela storie, che percorre strade poco battute. Un cinema politico. Un cinema radicale. Un cinema essenziale. “Combatto per i curdi, per la libertà e per le donne. Perché noi donne siamo il principale nemico dell’Isis. Ma l’Isis non è l’unico problema. In Medio Oriente, se sei una donna, devi imparare a difenderti il prima possibile. Qui, la maggior parte dei regimi è basata sulla sottomissione, sull’oppressione delle donne. È per questo che le uniche persone che possono cambiare questa mentalità sono le donne”. Profeti inizia con queste parole pronunciate da una combattente curda: un film su due donne occidentali che hanno fatto scelte diametralmente opposte. Sara, una giornalista italiana rapita dall’Isis durante un reportage di guerra in Siria, e Nur che la tiene prigioniera per mesi in una casa costruita in un campo di addestramento dello Stato Islamico. Nur, giovane foreign fighter e moglie di un miliziano del Califfato, tenta di convertire Sara e di farla aderire all’estremismo islamista. Episodi di questo genere sono accaduti a donne italiane e di altri paesi europei. E alcune, una minoranza, durante il rapimento hanno abbracciato con sincerità l’Islam diventando il bersaglio di politici che le accusavano di tradimento verso l’Occidente. Sindrome di Stoccolma? Una reazione alla paura? Nessuno può dare un giudizio netto, definitivo su quelle conversioni. Nemmeno la psicanalisi o la teologia. Quello che il cinema può e deve fare, è mettere in scena la vicenda di Sara e Nur senza manicheismi o semplificazioni retoriche. Questa storia, infatti, non soltanto è metafora di quello che accade in molte parti del Medio Oriente, ma ci riguarda da vicino. Poiché, ormai lo sappiamo, se nell’altra sponda del Mediterraneo inizia un incendio poi le fiamme arrivano anche da noi.
Alessio Cremonini