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IL RE FANCIULLO - "Io, Franz, Rivara, il cinema"


Alessandra Lancellotti racconta il suo ultimo progetto, il documentario "Il re fanciullo", ora in tour per le sale italiane


IL RE FANCIULLO -
Il re fanciullo
Dopo le esperienze festivaliere di Lisbona e Bellaria, "Il re fanciullo" di Alessandra Lancellotti inizia il suo percorso nelle sale italiane incontrando il pubblico. Abbiamo intervistato la regista.

Il progetto è durato una decina di anni: quando e perché lo hai iniziato? Avevi già in mente un percorso simile a quello che poi hai vissuto (eventi della vita a parte, ovviamente)?

Nel 2013 sono arrivata a Rivara come architetto, seguendo le tracce di Alfredo D’Andrade, che nella seconda metà dell’Ottocento era stato pittore e restauratore nel cenacolo di Carlo Pittara. Non sapevo ancora che il castello fosse successivamente diventato un museo, oltre che la residenza di uno dei più grandi mecenati italiani di epoca contemporanea. Franz Paludetto se ne stava solitario nell’androne del castello, mentre gli giravamo intorno, rilevando e misurando il castello. Esistevano molte opere, fotografiche e pittoriche, su Franz e Rivara. Ho intuito che con il cinema avrei potuto fare quello che nessuno aveva ancora fatto. Inizialmente mi interessò la vita ordinaria in un luogo aulico, così ho iniziato un documentario d’osservazione sul rapporto simbiotico tra l’uomo, l’architettura e la collezione d’arte. Nel corso del decennio che ho trascorso a Rivara, il mio rapporto con Franz è cambiato, così l’accesso alla sua storia. Infine, il mio lavoro è diventato quello che mai avrei pensato inizialmente: un cinema intimo e soggettivo, sia dalla sua che dalla mia prospettiva.

La storia del castello è proseguita, drammaticamente, anche a riprese finite, che forse hanno complicato ulteriormente il tuo processo artistico. O no?

Franz è morto nel maggio del 2023, ma la storia del film si era inevitabilmente già compiuta con la sua malattia tempo prima, mentre io ed Enrico Masi stavamo ancora filmando. Essere solo in due ci ha permesso di avere uno sguardo privilegiato su Franz, colto anche nelle sue fragilità. Abbiamo assistito a una progressiva perdita della memoria: Franz non ricordava parte della sua vita e non mi riconosceva più. Questo mi ha causato molto dolore, ma ho capito che potesse essere anche un conflitto drammaturgico molto potente, oltre che la verità della nostra amicizia. Anche i codici formali seguono le fasi e gli umori della storia: le pellicole scadute, in particolar modo, rispondono a una poetica del frammento e di esaurimento materico e dell’immagine. Il montaggio è stato un’occasione importante di riscrittura di quanto avessi vissuto e si stesse irrimediabilmente perdendo.

Sei riuscita a mettere insieme materiali molto differenti e a costruire con essi un racconto coerente, coinvolgente, dinamico: come hai lavorato in tal senso? Cosa ricercavi nelle tante e varie strade che avevi di fronte?

Credo di aver fatto un film d’archivio, che opera lo scavo archeologico e la sublimazione della memoria. L’archivio non è in questo lavoro solo una serie di fonti (pittoriche, architettoniche, fotografiche, grafiche, cinematografiche), ma costituisce un punto di vista specifico e rappresenta un metodo d’indagine della realtà. La prospettiva archivistica c’è anche quando non sembrerebbe e influenza fortemente la scrittura. Parte della colonna sonora, per esempio, è stata composta sulla base di uno spartito in cui Alfredo D’Andrade aveva musicato il suo nome. L’enorme ibridazione dei codici linguistici, dei formati e dei supporti che converge in un lavoro di questo tipo, va, tuttavia, tenuta insieme da un rigore formale. Ad esempio, abbiamo provato a chiarire attraverso pochi dispositivi quando un materiale sia da intendere in modo didascalico, quando in modo evocativo, oppure che le immagini ferme e bidimensionali, come i disegni d’architettura e i dipinti, vadano osservare con lo sguardo dello studioso, mentre quelle su cui interviene il tempo e il movimento vadano attraversate emozionalmente.

Da regista, come puoi immaginare di proseguire il tuo percorso dopo questo progetto così unico e speciale? Cambiando radicalmente metodologia, cercando qualcosa di analogo per quanto possibile o cos'altro?

Il Re Fanciullo è stato il mio racconto di formazione. Come tale, nei contenuti è unico. Mi sono guardata crescere nelle immagini e lo abbiamo montato quando non ero più la stessa persona. La mia storia stava sicuramente cambiando e avevo il desiderio di lavorare su altri soggetti. Oggi sono ancora molto vicina al metodo usato nel montaggio e nella ricerca archivistica del Fanciullo, quindi conserverò lo stesso gusto dell’indagine e della scrittura. Ma c’è una cosa che voglio introdurre, che si avvicina al cinema di finzione e che non ho mai sperimentato: il carattere performativo dei personaggi, mentre sono in campo. Franz viene raccontato quasi sempre fuori campo ne Il Re Fanciullo e anche Carlo Levi in Lucus a Lucendo, che avevo diretto nel 2019 con Enrico Masi. Sono entrambe storie che hanno a che fare con la biografia, ma che lavorano sull’assenza o sulla sottrazione. Vorrei invertire questo paradigma e che fossero i personaggi stessi a parlare per sé.

Fuori dal film, la storia del castello di Rivara è ora arrivata a un altro finale ancora: cosa ti auguri succeda?

Quello che è successo a film finito, che nessuno si aspettava, è stata la scomparsa di Davide Paludetto, unico figlio di Franz, che già da tempo dirigeva il museo e si occupava del castello. Questo evento ha fatto aumentare la responsabilità narrativa e testimoniale del film. Oggi il castello e la collezione di opere vivono un destino incerto, da quando i suoi ultimi castellani non ci sono più. Spero si entri presto in una nuova fase, in cui il castello possa tornare a vivere con una rinnovata funzione, compatibile con la sua natura, e torni a essere patrimonio collettivo. È una cosa che gli abitanti di Rivara hanno spesso trascurato, pensando che quel bene non gli appartenesse perché privato. Invece è stato un luogo aperto e ospitale, per molti artisti è stato addirittura una casa. Ora servirebbe che tutti quelli che hanno avuto un sostegno da Franz e da Davide nell’iniziare qualche impresa artistica restituiscano qualcosa in loro memoria, come si sta provando a fare. Credo che solo con un’attenzione di questo tipo la collezione e l'archivio abbiano speranza di non scomparire e, unitamente alla conservazione del castello, è quanto sta provando a fare il “Comitato per la valorizzazione del Castello di Rivara e della collezione d’arte Paludetto come bene comune”.

28/05/2024, 08:00

Carlo Griseri