Recensioni di :
- GLI ULTIMI BUTTERI - I custodi di un mestiere antico


Sinossi *:
In Francia ci sono i Gardians. In Ungheria gli Csikós. In Argentina, Uruguay, Paraguay e Brasile meridionale ci sono Gaucho. In Venezuela i Llanero, in Cile i Huaso, in Australia i Ringers e Stockman, in Mongolia ci sono i nomadi Wuzhumuqin. Negli Stati Uniti e in Canada ovviamente ci sono i Cowboys. Nel pianeta, ovunque si trovino degli spazi aperti al pascolo, ci sono questi cavalieri a sorvegliare il bestiame. In Italia, e solo qui, ci sono loro, i Butteri.

Ad Alberese, nella Maremma toscana, sono rimasti gli ultimi butteri, uomini eroici che praticano ancora l'allevamento allo stato brado di bovini, esempi viventi di una possibilità di riscatto nei confronti della natura. Negli occhi di questi uomini e dei loro animali si comprende il sentimento che si ha nel vivere una vita che ha un senso, una vita a cui non rinuncerebbero mai. Due giovani entrano nel gruppo per imparare questo mestiere, duro e per pochi. Solo uno di loro ce la farà. Il futuro di questo mondo antico è nelle loro mani.


Suono:
Alberto Batocchi (Presa Diretta)
Walter Neri (Presa Diretta)

Produttore:
Walter Bencini

Produttore Esecutivo:
Stefano Mutolo

Direttore di Produzione:
Mario Critelli

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NOTIZIE 'Gli Ultimi Butteri'



Note:
I PROTAGONISTI
Gli ultimi butteri ci introduce nelle esistenze e nel quotidiano di questi uomini che si portano addosso “l’aria” del territorio che li ha visti crescere. Uomini come Alessandro Zampieri detto “La Vecchia”. Capo dei butteri, uomo rigoroso, severo e permaloso, sguardo penetrante, Zampieri è prossimo alla pensione, custode di un sapere antico e di tutta un’esistenza segnata dal rapporto con il bestiame. Il capo squadra Stefano Pavin “l'uomo che sussurra ai cavalli” è l'esperto della doma, riservato e particolarmente incline a prendere fuoco, è il responsabile della trasmissione della conoscenza alle nuove generazioni; il taciturno Luca Bettiol detto “Civetta”, solitario e silente, ma le cui rare parole, a volte sono pietre; il giovane Giacomo Pani detto “Crognolo”, un agronomo disinvolto, remissivo e multimediale. E Luca De Santis chiamato “Luchino” ma ribattezzato dai più vecchi “Lattarino” è l’ultimo arrivato nel gruppo ed è il più giovane, ama le regole e gli animali, con cui ha lavorato fin da piccolo.







Sono uomini cocciuti, che si raccontano in maniera diretta, senza fronzoli, con quella fierezza, quell'orgoglio del proprio mestiere, consapevoli della propria utilità, del proprio ruolo di butteri e, insieme, difensori degli animali e del territorio. I racconti di questi uomini a volte ci divertono e a volte un po’ ci rattristano. Sanno ridere di sé e anche della loro situazione, sanno raccontarsi senza pudori, sanno dirci dei conflitti e degli screzi tra loro senza peli sulla lingua, sanno vivere anche con allegria, collaborando insieme alla riuscita di un progetto comune. Eppure, in alcuni momenti, quando parlano del futuro, sia di quello di ognuno sia di quello dell'azienda, i volti si fanno pensosi, preoccupati. Eppure ci credono, ci regalano un sorriso, dicono una battuta, tornano al quotidiano. E riprendono a crederci.

IL CONTESTO
Nella seconda metà del Novecento il consumo globale di carne è aumentato di 5 volte, passando dai 45 milioni di tonnellate di carne consumati nel 1950 agli attuali 250 milioni di tonnellate. Secondo le stime della Fao, questo consumo è destinato a raddoppiare entro il 2050. All’aumento della domanda su scala mondiale è corrisposta una crescita impressionante della produzione industriale di carne e, di conseguenza, la concentrazione del potere nelle mani delle poche grandi aziende che possono soddisfare la domanda del mercato. Questa trasformazione nel settore dell’allevamento e della produzione di carne, a sua volta, ha una lunga serie di conseguenze negative: sull’ambiente, sulla biodiversità, sulla salute e sulla qualità della vita umana, ed anche sul benessere animale e sull’equità sociale.
Le cifre sono inesorabili: continuare a mangiare carne con i livelli di consumo a cui si è abituato l’Occidente è insostenibile. Ad esempio se anche solo i popoli di Cina, India e Brasile iniziassero a mangiare la stessa quantità di carne, non basterebbe la superficie della terra per sfamare il bestiame. Nonostante tutto non si può ignorare l’emergere di una nuova sensibilità verso gli animali, che si è espressa negli stili di vita che sempre di più abbandonano o limitano i consumi carnei e che ha promosso leggi più stringenti a tutela del benessere animale. La strada più ragionevole non passa forzatamente dalla totale rinuncia, ma certamente dal consumo moderato di carne buona, proveniente da un’agricoltura trasparente e sostenibile. Il consumo di carne deve innanzitutto andare a braccetto con il benessere degli animali.
Nel 2007 il Trattato di Lisbona sottoscritto dai paesi dell’Unione Europea ha ufficialmente riconosciuto agli animali lo status di esseri senzienti che, in quanto tali, acquisiscono diritti e tutele, ed equiparando di fatto il benessere animale ad altri principi etici come la parità tra i sessi, la tutela della salute umana e la protezione sociale. Eppure, nel sistema attuale gli animali continuano a pagare un prezzo elevato. Gli allevamenti convenzionali riducono gli animali a mere macchine, a merci: sono costretti in gabbie strettissime o confinati in spazi ridotti dove trascorrono una vita breve quanto dolorosa. Nel corso della loro esistenza, gli animali subiscono varie mutilazioni: viene spuntato loro il becco, viene mozzata loro la coda o le ali, sono spesso castrati senza anestesia, decornificati a 5-6 settimane di vita affinché lo stress prodotto dalla reclusione e dalla condanna a uno stile di vita innaturale non li induca a ferire gli altri animali. Infine, il trasporto al macello richiede spesso molte ore di viaggio in condizioni di grande sofferenza. Strappati al loro ambiente abituale, e affidati a operatori spesso impreparati, gli animali accusano stress e tensioni di ogni genere. Gli allevamenti industriali contribuiscono in maniera significativa alle emissioni di gas serra, al cambiamento climatico e all’abbattimento di foreste per fare spazio ai pascoli e alle monocolture da cui ottenere mangimi.
L’allevamento industriale inoltre, ha favorito il ricorso all’impiego di razze e di ibridi più produttivi e adatti alla stabulazione fissa, contribuendo in misura rilevante alla scomparsa o all’abbandono di molte razze animali autoctone, le cui caratteristiche sono legate a un territorio in cui si sono sviluppate o naturalmente adattate nel corso del tempo. Le razze autoctone sono più adatte alle condizioni climatiche, geografiche e socioeconomiche del territorio e, anche in ambienti estremi, hanno bisogno di meno cure e meno cibo. Per queste ragioni, la Fao ritiene il settore zootecnico quale maggiore responsabile della perdita di biodiversità complessiva del nostro pianeta. Gli allevamenti tradizionali di piccola scala, invece, possono essere gestiti in modo più sostenibile: l’erba e il fieno provengono dal territorio sul quale gli animali sono allevati, così come i cereali e leguminose necessari per nutrirli, il che permette di farli crescere a densità minori e di impiegare il loro letame come fertilizzante per i campi. I piccoli agricoltori agroecologici rappresentano la forma più funzionale di agricoltura, in grado di nutrire il mondo e ridurre le pressioni ecologiche ed economiche.
I piccoli agricoltori e le piccole fattorie sono una chiave della sicurezza alimentare, sono modelli di sostenibilità e santuari di biodiversità. Non ultimo, contribuiscono al raffreddamento del clima. L'agricoltura familiare con i suoi volti e le sue storie, rappresenta un modello di sviluppo legato in modo inestricabile al benessere ambientale del pianeta e alla sopravvivenza economica delle comunità locali. Ne è un esempio l'azienda agricola di Alberese in Maremma, che da generazioni pratica l'allevamento allo stato brado di bovini attraverso la figura del buttero.

I BUTTERI
Eroi di un mondo ormai inesorabilmente destinato a scomparire. In questa terra rude e paludosa di etrusca memoria, comparve, nel XVIII secolo, una forma di allevamento prevalentemente improntato all’utilizzo dei grandi spazi aperti, dove i branchi di bovini e cavalli, tenuti allo stato brado, venivano custoditi dai butteri. Il buttero a cavallo era l’uomo preposto alla cura delle bestie, un personaggio dall’alone eroico, simbolo di una terra antica e custode di un sapere millenario. Non c’era un corso da seguire per fare il buttero: i figli imparavano dai padri e i giovani dai vecchi. Il mestiere si acquisiva facendo e osservando. L’arte veniva man mano codificata in regole non scritte, e il prezioso bagaglio di conoscenza è finito per diventare un vero patrimonio di cultura e tradizione. Questa ormai mitica figura di mandriano a cavallo, non ha resistito ai grandi stravolgimenti del Novecento e ha cominciato a perdere d'importanza negli anni ’50, quando l’avvento massiccio della meccanizzazione e il cambiamento delle esigenze del mercato, hanno decretato la fine dell'allevamento brado e di conseguenza, una forte diminuzione dell’impiego dei butteri. Per fortuna l’amore dimostrato da più generazioni per la terra maremmana, con le sue leggi e i suoi ritmi, e una grande sensibilità per la storia e la cultura del luogo, hanno fatto sì che comunque il mito perdurasse nel tempo.
Il buttero appartiene all’immaginario collettivo della Maremma insieme alle vacche dalle grandi corna a lira che ancora pascolano nella piana di Alberese. Nei tempi moderni è soprattutto folklore, e oggi di veri butteri ne rimangono ben pochi. Tra questi pochi, cinque lavorano nell'Azienda Agricola regionale di Alberese.
La vita dei butteri è dura. Partono al mattino presto a controllare le mandrie, conoscono le vacche una per una, si accorgono se ci sono problemi, sanno individuare una femmina prossima
al parto, possono smistare centinaia di animali per trasferirli da una zona all’altra, controllano i pascoli, le recinzioni, i punti di abbeveraggio. Il lavoro aumenta in primavera quando cominciano a nascere puledri e vitelli e iniziano le monte brade di tori e stalloni.
Cinque ore a cavallo ogni giorno dell’anno, con ogni condizione atmosferica. Un lavoro insostituibile che prosegue con l’addestramento dei cavalli, la cura degli animali, delle stalle, dei recinti e degli strumenti di lavoro come selle e finimenti. Fare il buttero è soprattutto una filosofia di vita perché si lavora a contatto diretto con gli animali, dotati di un loro carattere, di un loro temperamento e poco avvezzi alla presenza umana. È necessario amare davvero gli animali per fare questo mestiere. E questa non è cosa che si possa insegnare.

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