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Tre storie di operai al confino: "Democrazia sconfinata" premiato al Valsusa FilmfestSinossi *: Attraverso le testimonianze di lavoratori o ex, gli autori provano a raccontare una “fetta” di lavoro italiano, quello alla catena di montaggio, da sempre violato nei suoi diritti basilari. Per capire, partendo dall’attualità, cosa producono le lunghe fasi in cui la dinamica democratica nella grande fabbrica è sospesa. Tre generazioni di lavoratori a confronto, dai reparti “confino” dell’industria italiana. Sono operai, nelle Officine Sussidiarie Ricambi Fiat di Torino e nel polo tecnologico di Nola, distaccamento della Fiat di Pomigliano d’Arco (Napoli). E dirigenti, nella palazzina LAF dell’Ilva di Taranto.
I reparti “confino” sono luoghi di sospensione dei diritti del lavoro. Le imprese vi destinano lavoratori “insubordinati” o iscritti al sindacato o a ridotta capacità lavorativa. Tutti costretti all’ozio forzato, al non lavoro. È una storia che si ripete in Italia: al nord (Torino, 1952) e al sud (Taranto, 1997) risiedono il passato remoto e prossimo di questa tradizione. A Nola (fine 2008) l’attualità, motore del documentario. Nola infatti tiene in vita la tradizione che nel Bel paese ha 60 anni. Sull’assenza di democrazia nella grande fabbrica, premono i mali che essa produce: l’inquinamento del lavoro (assenza di sicurezza, infortuni, morti e malati professionali) e dell’ambiente.
La Fiat e l’Ilva sono realtà industriali diverse (la prima produce auto, la seconda acciaio e derivati, che fornisce anche alla Fiat), ma con elementi in comune: sono sul mercato mondiale e tengono, nonostante la crisi, e per rispondervi si sono regolate allo stesso modo: cassa integrazione a go-go e licenziamenti. Ancora però occupano migliaia di lavoratori.
In queste realtà produttive il modello fordista è prevalente. È saltata la dialettica democratica tra azienda e lavoratori, e i luoghi di lavoro sono insicuri e insalubri. Entrambe legano la loro storia italiana all’istituzione di reparti confino.
La tradizione dei reparti confino in Fiat non è giovane. Era il 15 dicembre 1952 quando l’azienda mandò l'elettricista Pietro Baldini, dipendente Mirafiori, a sistemare il piccolo stabilimento in Via Peschiera, a Torino, dove avrebbe aperto l'Officina Sussidiaria Ricambi. Ma ai 130 lavoratori trasferiti, tutti attivisti politici e sindacali, fu subito chiaro che la Fiat non avesse intenzione di attrezzarla per renderla produttiva. Nel dicembre 1957 i lavoratori furono licenziati e l'officina venne chiusa. La resistenza degli operai delle OSR, perciò ribattezzate Officine Stella Rossa, aveva reso evidente il carattere discriminatorio dei licenziamenti (decisi da Giovanni Agnelli e Vittorio Valletta, da poco ricollocati dal governo a dirigere la Fiat, dopo esser stati esautorati dal CLN per aver collaborato coi nazifascisti).
A Torino gli autori hanno incontrato anche Otello Pacifico, uno degli operai più combattivi delle OSR. Agli altri lavoratori “confinati” presta la voce Fabrizio Gifuni (che legge anche un adattamento de “La nostalgia e la memoria”, di Sante Notarnicola,). Le loro testimonianze sono tratte dal libro “Fiat confino” (edizioni Avanti!, 1959), di Aris Accornero.
Poi viene fatto un salto in avanti di 57 anni. Restando in Fiat, da Torino arriviamo a Nola. È il 7 dicembre 2008 quando Sergio Marchionne, amministratore delegato Fiat, gioca a Pomigliano d’Arco la carta della “qualità produttiva”. L’adozione del World Class Manufacturing (WCM), sistema giapponese che velocizza e automatizza il lavoro in catena, è una novità nel panorama industriale italiano (in Fiat però ha degli antenati: Tmc, Tmc2 eccetera). Marchionne sostiene che con l’adozione del WCM l'impianto polacco di Tychy ha raggiunto livelli produttivi superiori a quelli giapponesi. E che il Lingotto già s’ispira al modello Toyota: just in time ma “col massimo coinvolgimento dei lavoratori”.
Un anno dopo, nel 2009, la tempistica alla Fiat di Pomigliano d’Arco è modellata ai canoni del WCM, ma i lavoratori non sono stati formati alle “novità”: i corsi di riqualificazione su cui l’azienda si era impegnata a investire 700.000 euro dei fondi per la ristrutturazione del sito campano, si sono risolti in videointerviste che i lavoratori hanno dovuto rilasciare a un’equipe medica incaricata di tracciarne il profilo psichiatrico. Sulla base di quei test, la Fiat ha disposto il trasferimento di oltre 300 di loro dallo stabilimento di Pomigliano d’Arco al polo tecnologico di Nola. Sono operai vicini al sindacato o a ridotta capacità lavorativa. In quell’area, a 20 km dallo stabilimento, caricano e scaricano componenti per auto. Attività che potrebbero svolgere nello stabilimento di Pomigliano, dotato degli spazi necessari, e a cui non dedicano più di due ore al giorno. L’introduzione del WCM ha portato centinaia di provvedimenti disciplinari, lettere di richiamo e licenziamenti. Mesi fa il malcontento diffuso tra i lavoratori è sfociato in tensioni con la polizia.
I fatti di Nola ricordano quelli avvenuti a Taranto nel 1997, a due anni dalla privatizzazione dell’Italsider (oggi Ilva). Negli anni settanta le acciaierie di Stato impiegavano oltre 25mila lavoratori. Nel 1995 sono passate al gruppo Riva, che ne ha fatto il cuore del proprio impero. Oggi l’Ilva è tra i più grandi centri siderurgici d’Europa. Impiega 13.500 dipendenti, ai quali vanno aggiunti i 4000 dell’indotto. Con la privatizzazione dello stabilimento sono arrivati i prepensionamenti di massa, la cassa integrazione intensiva e le assunzioni a termine. E l’istituzione, nell’area interna alla fabbrica, della palazzina LAF (acronimo di Laminatoio a freddo). Un non luogo in realtà – ambienti spogli e malsani, isolati dall’esterno – in cui la proprietà ha confinato 79 lavoratori, perché troppo qualificati, perché iscritti al sindacato, perché invalidi. Tenuti in ozio in attesa di una riqualificazione che non c’è stata, e che avrebbe garantito loro il rientro nel ciclo produttivo. I lavoratori trasferiti nella Laf si erano rifiutati di firmare la novazione aziendale, che li avrebbe retrocessi dallo status di dirigenti a quello di operai. La vicenda ha trovato definizione nelle aule di tribunale. Confermando le sentenze di primo grado e d’appello, la Cassazione ha condannato per violenza privata consumata e tentata Emilio Riva, proprietario dell’Ilva, e dieci dirigenti dello stabilimento tarantino. Riconoscendo il risarcimento danni (biologici e morali) alle parti civili: i lavoratori e la Uil. Parliamo con i “confinati” Laf, e con chi, a vario titolo, si è occupato di loro. Ad esempio con Francesco Sebastio, procuratore capo di Taranto, che all’epoca istruì il processo.