Conversazione con Vittorio De Seta sul film Lettere dal Sahara
Quando ha pensato a questo film? Che cosa l’ha ispirato?
Vittorio De Seta: Fin dal ’98. Non facevo cinema da quasi vent’anni. Mi è tornata voglia ed ho pensato agli immigrati. Gli emarginati, i dimenticati, gli esclusi, dai primi documentari a Banditi a Orgosolo, Diario di un maestro, sono stati il mio tema di sempre.
Che cosa significa per lei essere immigrato?
Vittorio De Seta: Mi ha sempre colpito, nelle strade, nei mercatini, quella presenza silenziosa, dissimulata. Gi africani poi sembrano ombre. Da prigioniero di guerra so cos’è la non-presenza. Questo mi ha affascinato. Restituire dignità a chi non ce l’ha, ridimensionare la nostra presunzione “occidentale”, che ci fa sentire il centro del mondo. Far comprendere che esistono religioni, culture, realtà “diverse” (che non significa “inferiori”). Insomma abbattere gli steccati che
non hanno più senso.
Come ha fatto a calarsi così bene nel loro punto di vista?
Vittorio De Seta: Sono stati gli interpreti, senegalesi e italiani, a calarsi nelle situazioni. Il film è stato girato spesso in modo estemporaneo, improvvisato. Un po’ come Diario di un maestro. A Villa Literno, per esempio, dovevamo girare una scena in cui un gruppo di immigrati riceveva la visita di amici musicisti. Non avevo scritto la scena. Che ne sapevo del loro modo di rapportarsi? Così ho descritto la situazione e sono andati a braccio. Gli africani hanno un senso del ritmo e del tempo, incredibile. I musicisti ospiti, sapendo che mi piaceva Ismael Lö, avevano preparato un pezzo di quel cantautore. La canzone parla degli
emigrati. Quando recitavano in wolof, la loro lingua, non capivo una parola,
ma mi fidavo.
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Un tema importante nel film è la violenza fisica e morale della società sull’escluso. Ce ne può parlare?
Vittorio De Seta: La violenza fisica e morale nella società viene inflitta dalla scuola, dalla televisione, dal bagaglio di credenze che ci portiamo dietro. La violenza sugli esclusi (carcerati, extracomunitari, ecc…), non è altro che la parte emersa dell’iceberg.
E’ siciliano e vive in Calabria. Cosa pensa del Sud del mondo?
Vittorio De Seta: Il sud del mondo non è un’espressione geografica, è un malessere diffuso, ovunque, che tocca miliardi persone, vittime dell’egoismo, della mancanza d’immaginazione, dell’imprevidenza dei ricchi. Metà della popolazione mondiale non ha case decenti, non ha l’acqua corrente, molti soffrono la fame, mentre noi continuiamo a costruire navi da crociera immense, gipponi, seconde, terze case e armi, armi, armi…
Cosa deve raccontare il cinema, oggi?
Vittorio De Seta: Il cinema dovrebbe raccontare proprio queste cose. Ricordo l’emozione che provai nel ’73 quando la RAI trasmise Diario di un maestro, domenica sera alle 21. Battuti tutti i record d’ascolto e gradimento. Critiche positive da L’Osservatore romano a Lotta continua. Venduto in 40 paesi. Il trauma fu intenso, non mi raccapezzavo. Allora si può? Non c’è bisogna di filmoni con agenti segreti, storie d’amore, fasti dell’impero romano, avventure fantascientifiche. Si possono trattare temi impegnativi come il rinnovamento della scuola, con sedici ragazzini di Tiburtino III, un attore eccellente, Bruno Cirino e pochi collaboratori di primissima qualità e avere successo. E’ possibile! Ci ho messo 25 anni - quanto si può essere capoccioni a volte! per capire che la formula era applicabile anche a un altro film. Mi auguro che questo lavoro ricalchi il successo del Diario. In un paese che ha prodotto fino a 300 film l’anno, si realizzano pochi film d’impegno politico e sociale. I film sull’emigrazione si possono contare sulle dita di una mano. In letteratura ancora peggio. Nel corso di un secolo, mi pare, sull’emigrazione - un dramma che ha coinvolto forse 100 milioni d’italiani, è stato scritto quasi niente. Eppure il compito dell’arte dovrebbe essere d’interpretare, elaborare la realtà, per renderla comprensibile e affrontabile.
Il cinema può avere un valore, un’utilità sociale?
Vittorio De Seta: Esagerando si dovrebbe dire che il cinema e la televisione dovrebbero avere
una “funzione” sociale. Majakovskji, il poeta russo morto suicida ai tempi di
Stalin, scriveva Il cinema è un gigante, potrebbe cambiare il mondo, ma
l’industria gli ha gettato una manciata di polvere d’oro negli occhi. (cito a
memoria).
E’ la prima volta che ha girato un film in digitale. Secondo lei questo è il futuro del cinema?
Vittorio De Seta: Senza dubbio. Mi sono sempre piaciute le novità tecniche. Il digitale l’abbiamo adottato soprattutto per ragioni economiche. Ma una volta che hai uno strumento nuovo tra le mani devi sfruttarne le possibilità. Mi sono reso conto che con la tecnica digitale si rivoluziona tutto. Abbiamo impiegato due telecamere (sarebbe stato meglio tre) girando 90 minuti al giorno (con la pellicola se ne girano mediamente 20). Abbiamo premontato il materiale
durante le riprese (una scena venuta male si poteva rifare). Insomma molte possibilità; senza contare i vantaggi al montaggio: ingrandire le inquadrature, accelerarle, rallentarle, capovolgerle e infine gli effetti speciali.
E’ considerato da tanti un maestro del cinema. Cosa le piacerebbe aver insegnato? Cosa vorrebbe ancora insegnare?
Vittorio De Seta: L’arte, a parte la tecnica che nel caso del cinema evolve rapidamente, è fatta di sentimenti, intuizioni, pensieri, che non si possono insegnare. Dopo aver realizzato Diario di un maestro, in cui si abolivano libri di testo, voti, mi sarebbe piaciuto provare l’insegnamento. Lavorare a tempo pieno, con un gruppo di quindici, venti ragazzi, cominciare a fare fotografie, commentandole. Poi documentari, tutt’insieme, dal soggetto al montaggio.
Infine film di basso costo, artigianali. Con questo metodo - in capo a un anno
e mezzo, due - ognuno scoprirebbe la propria vocazione (fotografia, suono,
montaggio, produzione) e imparerebbe a lavorare con gli altri.
Nel 2005 le è stata dedicata una personale al Full Frame di Durham (N.Carolina) ed al Tribeca di New York. Quest’anno una retrospettiva alla Fondazione Flaherty ed al MOMA di NewYork. Scorsese ha presentato i suoi lavori. Ha definito Banditi a Orgosolo un capolavoro assoluto e Jack Nicholson racconta di averlo addirittura studiato. Insomma l’America ama il suo cinema. Come mai secondo lei?
Vittorio De Seta: Scorsese è intervenuto l’anno scorso. E’ venuto a Durham e al Tribeca di New York a presentare i vecchi documentari siciliani. Oltre che un grande regista è un cultore di cinema, un uomo generoso. Quei sette documentari per lui hanno un significato personale, biografico: in essi ha visto la Sicilia come l’avevano lasciata i nonni, partiti dalle Madonie a fine ‘800. La rivisitazione di un mondo perduto, mitico. Gli americani sono un popolo giovane, fatto d’emigranti venuti da tutto il mondo. Questo mette in moto sinergie, dinamismi straordinari, ma anche nostalgie endemiche per le tradizioni perdute. Forse nei miei lavori trovano questo. Ma ormai non soltanto loro. Tramontate le ideologie, venuta meno la fede nel progresso, è saltato fuori il problema dell’identità, dell’appartenenza. Ci rendiamo conto oggi di aver imboccato una strada a senso unico, voltato una pagina che è l’intera storia dell’uomo. Avendo perso i riferimenti col passato ci troviamo smarriti di fronte al futuro. I miei documentari colmano questa nostalgia. Li ho seguiti, recentemente in Francia, Norvegia, Turchia, oltre che in l’Italia, sono stati proiettati anche in India, e dappertutto piacciono. Forse perché c’è un po’ di poesia, il sale che conserva le cose.
01/11/2006