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Intervista a Vittorio Moroni sul documentario "Le Ferie di Licu" - 1


Prima parte dell'intervista-racconto al regista Vittorio Moroni, autore del documentario rivelazione del 2007 "Le Ferie di Licu" e nel 2004 del film "Tu Devi Essere il Lupo", distribuiti dall'associazione MySelf. La prossima settimana verrà pubblicata la seconda e ultima parte.


Intervista a Vittorio Moroni sul documentario
La tua filmografia è intermittente tra documentario e film di finzione. Questo film sembra annodare tra loro, e in modo inedito, queste due esperienze. Cosa c’è all’origine di questo progetto, da dove arriva Licu?
Vittorio Moroni: Ogni volta che tento di fare un film di finzione scopro di non essere pronto e che c’è bisogno di un approfondimento dei personaggi che non riesco a fare davanti al computer con la sola fantasia, perché c’è un punto del processo di scrittura della sceneggiatura dove la fantasia è inadeguata; così nasce la necessità del “metodo sperimentale”: andare in giro a cercare pezzi realmente esistenti dei personaggi fino ad allora inventati. Niente di meglio a quel punto che portarsi una telecamera e prendere qualche nota visiva e acustica. Niente di meglio che filmare per indagare. Cercare per strada qualcosa che si è ideato al computer è un’operazione strana: la memoria del personaggio inventato funziona da metal-detector, solo che a volta, scavando nella convinzione di trovare un’ orologio d’oro ci si imbatte in un’anfora greca. In questo genere di ricerca Volontà e Caso cominciano a fare braccio di ferro: l’ostinazione di restare fedeli a quanto si è immaginato si scontra con la meraviglia dell’ignoto che si rivela. Convinte idee sul mondo devono fare i conti con la brutale dolcezza contraddittoria e irriducibile dell’individuo. Alla fine capita che partito con l’idea di fare un film di finzione faccio una ricerca filmata che diventa un lungo appassionante documentario e il film per cui tutto era cominciato non lo faccio più. E’ già la seconda volta che succede.
All’inizio del 2004 sto lavorando alla sceneggiatura per un film di finzione che racconta, tra gli altri, di due personaggi immigrati dal Bangladesh. Sento di avere bisogno di più informazioni, colori, sapori, mi rendo conto che le cose che ho scritto nel soggetto non sono convincenti: troppo astratte, stereotipate, mancano di dettagli imprevisti, di sottigliezze decisive, mancano dei suoni di quella strana lingua che nasce dalla mescolanza di un italiano appreso senza studiare la grammatica e un bengalese esportato... Perciò decido di “fare un bagno” nella comunità bengalese di Roma.
Nei quartieri pasoliniani a est del Mandrione, dove la fine di una discesa fa convergere la Casilina a destra con via di Torpignattara e a sinistra con via dell’Acqua Bullicante, comincia il Piccolo Bangladesh, un’ area che da due decenni vede un sempre maggiore insediamento di immigrati bengalesi. Non è ancora una zona chic e trendy come Brick Lane a Londra, ma ha già una sua personalità vivace e odorosa: una concorrenza formidabile di call center, kebab, negozi alimentari con pesci vivi da pescare al momento, videoteche con dvd e cd Bolliwoodiani e Dhalliwoodiani, negozi di abbigliamento, un paio di moschee “artigianali” e, ad ogni angolo, capannelli di uomini che parlano bengoli e scuotono la testa per dire sì e donne con passeggini che fuggono via coi loro saari, i loro sandali e i loro bambini. Nel piccolo Bangla si può notare la prima generazione che ce l’ha fatta (uomini tra i quaranta e i cinquanta che stanno pagando un mutuo per comprare casa, hanno un’attività che li sostenta e grazie alla quale sono riusciti a ricongiungersi con mogli e figli), la prima generazione che ce la sta mettendo tutta per farcela (ragazzi dai 20 ai 30 anni che quando va bene fanno 2 o 3 lavori per sbarcare il lunario- accettando paghe, orari e garanzie davvero ingrati-, quando va male passano la notte ai distributori di benzina aiutando gli automobilisti e sperando in una mancia; tutti giovani che possono permettersi un posto letto in una camera affollata di altri compaesani) e la seconda generazione che comincia a manifestarsi (tante bambine e bambini dagli 0 a 13 anni, più raramente qualche 17enne o 22enne, nati qui, cresciuti qui, che parlano un buon italiano romanesco con gli italiani e cercano di non dimenticare il bengalese con cui le loro madri li capiscono).
Comincio a conoscere giovani e adulti bengalesi - maschi, alle donne ho accesso raramente e con difficoltà - e a collezionare materiale. Ci sono alcuni fili conduttori, alcuni interrogativi che mi guidano: il più costante è la contraddizione che osservo tra comportamenti rapidamente occidentalizzati e il legame indiscusso con le proprie tradizioni. Per esempio noto una gran voglia di vestire all’occidentale, di mangiare fast-food, di esprimersi attraverso idiomi romaneschi, di dichiararsi tifoso della Roma e al tempo stesso una scarsa conoscenza della lingua e la consuetudine ad abitare con connazionali, a raggrupparsi in enclavi etnicamente omogenee e rassicuranti. Come se il confronto tra la cultura bengalese e quella italiana avesse due strati: uno più superficiale molto permeabile ed uno sotterraneo invalicabile.
Un giorno incontro Licu, 27 anni, bengalese, Musulmano, in Italia da 7 anni, capelli scolpiti alla Elvis e t-shirt griffata, sorriso generosissimo su una faccia da fumetto e mi sento irresistibilmente attratto. Lui sembra lusingato dal mio interesse e da quello della videocamera. Comincio a pensare di concentrare la mia attenzione sulla sua storia e forse farci un documentario. Ci sono alcuni aspetti della sua personalità che mi intrigano: è intelligente senza essere colto, è pieno di vitalità senza essere invadente, si comporta come un leader pur vivendo ai limiti della sopravvivenza, veste in modo esuberante, attento ai trend della moda però parla dei propri genitori con obbediente rispetto; mostra con orgoglio il calendario senza veli della modella italiana sua collega di lavoro e al tempo stesso parla della sua religione con riverente dedizione, gioca regolarmente al Bingo, però non tocca alcolici… Insomma porta dentro di sé proprio quella schizofrenia che cerco di raccontare.

Quindi tutto è cominciato come una sorta di diario su Licu, annotazioni sparse della sua vita di tutti i giorni. Quanto tempo è durato questo pedinamento e quali sono le cose che ti hanno convinto ad andare avanti?
Vittorio Moroni: La vita di Licu è piena di cose che meritano di essere raccontate: per arrivare a fine mese deve arrangiarsi con più lavori, per riuscire a pagare l’affitto deve dividere la casa (3 stanze) con altri 7 bengalesi, per mantenere il lavoro deve accettare condizioni ingiuste…Eppure Licu ha una fiducia smisurata in se stesso, nelle possibilità che l’Italia e la vita gli daranno, e questo ottimismo viene riconosciuto dagli amici come un attributo della sua natura di vincitore. In casa, con gli inquilini, ci sono turni per fare la spesa, turni di cucina, turni di pulizia. Il menù è sempre bengalese: riso pullao, carne, pesce, salsa piccante. In casa c’è la parabola e insieme guardano la tv bangladese: le news, ma soprattutto il torneo di cricket, o i film di Dhallywood. Quando non è stremato, dopo il lavoro, Licu va al bar e gioca a biliardino con italiani e bangladesi, cerca di non farsi sfuggire nessuna partita importante della Roma o della nazionale (italiana), e cerca di vestire nel modo più aggiornato ai gusti della gioventù romana (T-short griffate, jeans smunti, felpe col cappuccio, giubbotti…), il ciuffo è quello delle star del momento del cinema di Bollywood (Salman Khan).
Mi colpisce e mi convince il suo rapporto con la videocamera: Licu è curioso della nostra curiosità nei suoi confronti. E mi dà l’impressione di essere lui a volerci condurre dentro la sua vita. E’ pieno di disponibilità senza essere egocentrico; non è malizioso, esibizionista, sa comportarsi con naturalezza anche davanti a una telecamera e un microfono. E ha una dote da grande attore: la trasparenza interiore che permette all’obiettivo di intravedere il suo pensiero, senza che lui si debba atteggiare a meditabondo. E ha una faccia che non si scorda facilmente.
Cerco di attenermi a delle regole: voglio girare in modo che Licu si racconti da sé, senza ausilio di interviste o voce fuori campo. Queste due auto-limitazioni, naturalmente, rendono tutto molto più complicato: in ogni frangente bisogna avere quel che basta per spiegare cosa sta succedendo: non è sufficiente cogliere il momento inaspettato, il gesto eccezionale, bisogna anche incaricarsi di descrivere il recinto della situazione, far capire dove si è, perché, chi è questo, chi è quello.
A questa complicazione si aggiunge quella della lingua: in molti casi Licu parla bengalese e noi siamo costretti a girare rimandando la conoscenza del contenuto al momento successivo della traduzione. Con Marco Piccarreda giro ore di materiale e dopo qualche mese quello che sembra venuto alla luce è un breve documentario su un immigrato bangladese a Roma, voglioso di farcela e piuttosto sfruttato, con una grande voglia di sembrare italiano e apparentemente in cerca di una fidanzata italiana.
E’ a questo punto che arriva una busta dal Bangladesh che cambierà completamente le sorti della vita di Licu e del nostro lavoro: per la prima volta penso seriamente a trasformare questo progetto in un film. Mi convinco che Licu è più bello e interessante dei personaggi che sto cercando di scrivere e che forse questo non deve essere il documentario propedeutico alla realizzazione di un film di finzione, ma il film stesso.
La lettera è stata spedita dalla madre di Licu che vive in un piccolo villaggio rurale del nord del Bangladesh e contiene 3 foto che ritraggono Fancy, una giovane di 18 anni che la famiglia di Licu ha scelto per lui come sposa. La mia sensazione è che Licu sia troppo romanizzato per accettare di sposare una sconosciuta mediante un matrimonio combinato. Invece mi sbaglio di grosso. Licu è felice e in breve tempo si organizza per ottenere le ferie e i soldi necessari per andare in Bangladesh e sposare Fancy. Noi ci attrezziamo per seguirlo con telecamera e microfoni e chiediamo il suo consenso ad immischiarci in questa nuova tappa della sua vita. Licu è felice di averci al seguito. Il lavoro prende una nuova strada del tutto inaspettata e quello che sembrava “un quaderno d’appunti sull’immigrato Licu” diviene una liofilizzata introduzione al “documentario sul matrimonio di Licu”. Tornati dal Bangladesh, dopo aver filmato e assistito alle imprevedibili peripezie che hanno portato ad un matrimonio complicatissimo e nient’affatto scontato, cerchiamo di mettere insieme tutto il materiale girato e attraverso il montaggio, di trovare un senso, un percorso narrativo, un andamento drammaturgico per raccontare la vita di Licu il cui finale sembra essere l’avvenuto matrimonio. Quello che sembra un documentario a questo punto dura circa un’ ora. Ma manca qualcosa. Manca l’arrivo di Fancy in Italia. Aspettiamo mesi perché ambasciate, questure e prefetture rilascino i visti e i documenti necessari al ricongiungimento, continuando a filmare Licu che prepara la stanza dove vivrà con la moglie, che cerca di restituire i debiti contratti per sposarsi… Quando arriva Fancy non riusciamo ad essere certi che la storia debba finire così. Anzi, mi sembra che la parte più interessante debba ancora venire e riguardi proprio il tentativo di questa coppia di sposi sconosciuti di conoscersi e amarsi. Decidiamo di andare avanti a girare. E più si gira, più si traduce il materiale girato, più si monta, più si capisce che quello che sembrava “ il documentario sul matrimonio di Licu” sta diventando “un flim sul matrimonio di Licu e Fancy e il loro confronto con la vita coniugale in Italia”. Giorni di girato vengono buttati e decine di minuti di montato sembrano ormai inutili. Quello che ormai sembra un vero e proprio film trova nuovi equilibri e ci rendiamo conto di aver bisogno, in questa versione, di alcune scene che non siamo riusciti a girare. Perciò chiediamo ai nostri protagonisti di diventare interpreti di se stessi e rimettere in scena alcuni fatti che ricordano bene ma che noi non eravamo presenti a filmare mentre accadevano. Sono passati più di 2 anni e mezzo dalle prime riprese, il film dura 93 minuti e ha tutta l’aria di essere un film, un vero film da vedere al cinema, il mio secondo film lungometraggio.

In che cosa “Le Ferie di Licu” è un film e in che cosa un documentario?
Vittorio Moroni: Se guardiamo alla narrazione, alla drammaturgia “Le Ferie di Licu” è un film con una storia piuttosto solida, un andamento in tre atti, colpi di scena, semine e raccolti, personaggi che subiscono trasformazioni nel tempo… Se guardiamo a come i pezzi del puzzle sono stati composti allora è un documentario: è stata la realtà ad aprire e chiudere le porte, a suggerirci dove andare, a costringerci a prendere certe strade e abbandonarne altre. Non c’è stata sceneggiatura, o meglio la scrittura-sceneggiatura è stata il montaggio. Comunque stabilire il confine tra queste due categorie non è così importante perché in ogni caso il problema rimane quello della verità e la verità riguarda sempre chi racconta. Non credo che il documentario sia mai una manifestazione della realtà senza mediazioni e non credo che la finzione sia la pura apparizione dell’interiorità di un autore. In entrambi i casi c’è un caos, una quantità di materia, di realtà che cerca forma e senso e al tempo stesso si ribella a chi cerca di mettevi ordine e senso e alla fine l’unica cosa che conta è il risultato di questa battaglia, il modo in cui le cose vengono mostrate, le possibilità di significato che lo sguardo di chi guarda è riuscito a far emergere. A volte è necessaria una bugia per restituire la verità di un processo. Dire quella bugia per essere sinceri è una responsabilità del narratore. Che egli sia un documentarista o un regista di fantascienza il problema non cambia.

Tra i temi presenti nel film emerge con forza quello della condizione della donna immigrata. Si può guardare a “Le Ferie di Licu” come ad un film di denuncia?
Vittorio Moroni: No. Nel modo più assoluto. Detesto la definizione “film di denuncia” e i suoi presupposti. Se c’è un film di denuncia vuol dire che c’è un tizio che fa una denuncia. Se quel tizio fa una denuncia vuol dire che si sente tanto convinto della sua statura morale, della sua visione del mondo, della sua conoscenza dei risvolti più reconditi delle cose da poter puntare il dito verso qualcun altro o verso una situazione e dire: ecco il male. Nella migliore delle ipotesi sarà un film poco interessante perché non interrogherà una realtà cercando di capire e svelare nuove inaspettate formulazioni del concetto di bene e male, ma ci vorrà convincere di qualcosa che il narratore sa già. Cioè sarà un film di propaganda. A me interessa invece un cinema “filosofico”, un cinema di dubbi e di inquietudini, che ponga questioni difficili da risolvere (anche e soprattutto per il narratore), un cinema che pianti la sua tenda proprio in mezzo alla bufera irresolubile di un problema e abiti lì, con coraggio, fino ai titoli di coda.

Quali sono i dubbi e le domande che attraversano il tuo film?
Vittorio Moroni: La domanda più insistente che io mi sono posto e mi pongo è una domanda molto concreta: cosa accadrà a questi due individui e al loro desiderio di essere felici? Si sono sposati senza conoscersi e senza scegliersi, vivono in un ambiente sociale e culturale lontanissimo e diversissimo da quello dove è radicata questa usanza, sono a contatto con sollecitazioni, aspettative e valori opposti a quelli contenuti in questa tradizione, si trovano isolati dalle loro famiglie, sottoposti a pressioni economiche violente, hanno strumenti linguistici scarsi e una preparazione culturale modesta. Sarebbero stati felici in Bangladesh? Possono esserlo qui? Come?
Naturalmente dalla loro storia scaturisce anche un’infinità di domande che trascende il loro caso: in che modo sta avvenendo la cosiddetta integrazione? Ci sono valori diversi appartenenti a culture differenti che possono diventare complementari, favorire attraverso il confronto un arricchimento, e ci sono valori che sono antagonisti, che si respingono, si escludono. Cosa accade quando i codici entrano in conflitto?
Ad esempio, per Licu è importante che sua moglie lo rispetti e per lui rispetto significa obbedienza, significa che lei rinunci ad uscire di casa in sua assenza o ad andare a scuola. Per la società in cui sta vivendo questa forma di rispetto è un disvalore.
Cosa succederà? Quel rispetto che lui esige è un valore accettabile perché appartiene ad una tradizione secolare? Cosa accadrà se Licu e Fancy avranno dei figli in Italia? Quanto più aspro diventerà il conflitto tra i codici? Chi vincerà e come?

Quali risposte ti sei dato attraverso il film?
Vittorio Moroni: Il film è un continuo punto interrogativo. Mostra senza giudicare, anche se questo non significa non partecipare emotivamente alle cose che succedono: io e Piccarreda abbiamo cercato di non nascondere i nostri sentimenti, ma il nostro coinvolgimento emotivo lo si trova nella composizione di un’ inquadratura, nella scelta di insistere su quel dettaglio, nel trascurare un evento per tenere sotto osservazione un volto, nella durata di quello sguardo… E lo spettatore, credo e spero, mantiene un margine di libertà molto ampio per pensare, farsi delle opinioni, immaginare, prevedere, sentire, indignarsi, parteggiare. Infatti non tutti gli spettatori reagiscono allo stesso modo di fronte alle situazioni e ai personaggi.
Quello che mi sembra emerga con forza è il fatto che l’ emigrazione (più o meno riuscita) è sempre e comunque un dramma, perché sconvolge l’identità di chi parte. Il costo dello sradicamento è sempre alto, costringe a ridefinire tutto e al tempo stesso a cercare di essere se stessi. Manca il conforto degli affetti, la rassicurazione di un sistema di codici noto, ciò che è stato lasciato si trasforma in un mito che aggredisce con l’arma della nostalgia e il futuro è una sfera nella quale è difficile riconoscersi e persino capire cosa sognare. Tornare indietro è impossibile. Se si è stati sradicati una volta lo si resta per sempre, anche se si torna al Paese d’origine.

Quanto è rilevante l’aspetto religioso, il fatto che le vicende narrate avvengono in un contesto islamico?
Vittorio Moroni: I personaggi del mio film sono quasi tutti musulmani. Il loro attaccamento alla religione, per quel che ho potuto sperimentare, avviene ad un livello quasi inconscio. Dà forma ai comportamenti, ai rituali, alla definizione dei ruoli, fa tutt’uno con lo schema delle relazioni sociali. Sono stato molto sorpreso dai cambiamenti che il personaggio di Licu ha mostrato dall’istante in cui si è assunto il ruolo di marito. E’ come se da quel momento avesse dovuto ergersi a baluardo di tutta la sua tradizione, proteggere di fronte al mondo l’onorabilità di sua moglie e del proprio matrimonio, e con essi di tutta la sua comunità. Dopo le nozze ho percepito in Licu la responsabilità di essere tutore non so bene se dei precetti islamici o della loro abituale configurazione comportamentale e sociale.

Quali sono state le difficoltà incontrate nei due anni di riprese?
Vittorio Moroni: Quando Licu ha deciso di partire per il Bangladesh e sposare la ragazza che sua madre gli aveva procurato, ho pensato che non mi avrebbe dato il permesso di seguirlo e filmare il suo matrimonio. Invece, con mia grande sorpresa, Licu era entusiasta dell’idea: le sue uniche preoccupazioni erano dettate dal timore di nostre difficoltà col cibo o con l’alloggio. In Bangladesh gradualmente ho capito il perché della sua accondiscendenza: Fancy proveniva da una città, Mymensingh, Licu da un villaggio rurale: Tangail. Per estrazione sociale Licu non era un buon partito per Fancy. L’unico bonus che poteva riscattarlo era la sua condizione di “mezzo italiano” come si definisce lui. Ma la famiglia di Fancy avrebbe certamente nutrito dubbi sul tipo di vita che Licu conduce in Italia, sulla sua situazione economica… In questo senso io risultavo una sorta di ‘status simbol’, ero la prova vivente del fatto che Licu in Italia era integrato: un amico occidentale che “lavora per la tv” e che lo reputa un soggetto così interessante da portare la tv a filmare il suo matrimonio. Le vicissitudini e le complicazioni del matrimonio sono state poi tali e tante da catturare la totalità delle energie e delle attenzioni delle due famiglie. Di fronte ai problemi che di ora in ora si manifestavano io ero una preoccupazione a dir poco secondaria. Tutti erano travolti dagli eventi e nessuno aveva tempo di preoccuparsi della mia videocamera o dei microfoni. Inoltre avevo la sensazione che non vi fosse una consuetudine alla ripresa audio-visiva: la videocamera era spesso vissuta come una macchina fotografica. I soggetti a volte si mettevano in posa per qualche istante e poi non capivano perché continuassi a puntare l’obiettivo verso di loro, perciò finivano per disinteressarsene.
Inoltre sapevano che non comprendevo il bengalese, perciò nonostante i microfoni non fossero mai nascosti avevano la sensazione di essere in qualche modo “protetti” dalla barriera linguistica. Sapevano che una volta in Italia avrei sottoposto le registrazioni sonore a un traduttore, ma era come se non se ne ricordassero. Infatti spesso parlavano di me come se io non li sentissi. Per tutte queste ragioni i problemi diplomatici durante le riprese bengalesi sono stati minimi. Più significativi sono stati durante le riprese in Italia. Nel terzo atto la narrazione arriva a un bivio: ci sembra che non sia più possibile raccontare Licu se non si racconta anche Fancy e le sue giornate durante le lunghissime ore in cui Licu è al lavoro. Per far questo abbiamo bisogno di stare con Fancy mentre Licu è assente. E qui sorgono i problemi. Licu non riesce ad essere franco e deciso nel dirci di no. Spesso inventa delle scuse, o le fa inventare a Fancy. La realtà è che non gli fa piacere che stiamo con Fancy senza che lui sia presente. Non ho mai capito se prevale il disagio per il giudizio della comunità bangladese (la gente vede e mormora) o una autentica gelosia personale. Entrambe le cause comunque sono presenti nella sua ritrosia. Quanto a Fancy non ho mai pensato che le dessimo troppo fastidio, e ho sempre visto dietro ai suoi malesseri invenzioni di Licu. Ma naturalmente non ne sono certo. Comunque in questa fase del film ogni equilibrio sembrava delicato e sul punto di rompersi. Non nego di aver fatto ricorso a molte pressioni e a una sorta di baratto per convincere Licu. Lui aveva costantemente bisogno del mio aiuto per risolvere problemi burocratici (compilare moduli, rinnovare il permesso di soggiorno, presentare la richiesta di far venire il fratello…) e inoltre io lo pagavo per il tempo che mi dedicava come attore (cioè per rimettere in scena alcune situazioni che non ero riuscito a filmare mentre erano accadute realmente). Quei mesi sono stati i più difficili sul piano diplomatico e, proprio per questo, i più faticosi.

Il terzo atto appare diverso dai due precedenti. E’ come se il narratore uscisse allo scoperto facendo sentire con più forza la sua presenza.
Vittorio Moroni: Nel terzo atto, cioè da quando il matrimonio è compiuto e la sposa ha raggiunto il marito a Roma, siamo chiamati a delle scelte narrative nuove. L’impressione è che a quel punto per raccontare Licu sia necessario raccontare anche Fancy. Il protagonista del film non è più lui, ma la coppia. Perciò non è più possibile stare nella scia di Licu, bisogna stare a volte con lui, a volte con lei, a volte con loro due insieme. L’ ubiquità della videocamera-prima sempre ancorata ai percorsi di Licu- la scelta di osservare ora un pomeriggio di Fancy ora una chiacchierata di Licu con la collega e soprattutto l’accostamento arbitrario ed espressivo delle cose di Licu con quelle di Fancy rivelano molto più scopertamente il disegno semantico del narratore. Se fino a questo punto eravamo in preda ad una realtà tracimante difficile da governare, ora diventiamo dei cecchini che decidono su cosa posare l’attenzione per restituire il senso generale del processo che sta avvenendo. Il fattore tempo del resto non è trascurabile. L’organizzazione del matrimonio, i suoi rocamboleschi colpi di scena, le visite, gli interrogatori, la celebrazione, tutto questo avveniva in un tempo circoscritto e dentro una griglia di possibilità comunque limitata. Il tema era chiaro: c’è uno che si vuole sposare, ci riuscirà? A nozze e trasferimento a Roma avvenuti si apre un territorio infinito. E il tema (riusciranno ad essere felici?) diviene meno ancorato ad un tempo preciso. Si potrebbe prolungare questa indagine per 30-40 anni e focalizzare l’attenzione su una quantità di variabili e di contraddizioni vastissima. Per questo è stato necessario fare una selezione molto stretta e molto arbitraria delle moltissime cose che stavano accadendo in quei mesi. E’ stato necessario assumerci la “responsabilità autoriale” di far risaltare quelli che ci sembravano i nodi essenziali, le questioni che avrebbero accompagnato per molto tempo (anche dopo la fine del film) la vita dei due sposi.

08/10/2007