Note di regia del documentario "La Valle della Luna"
Girare questo film è stato rispondere ad una domanda. O dare voce a un sentimento.
La mia ragazza di allora, Sara, un giorno mi disse: “In questo documentario stai cercando te stesso”.
Non l’avevo mai pensata in questo modo fino al momento in cui quelle parole non vennero pronunciate castamente e senza malizia.
Negli anni ‘70 ci sono solo nato, ma sono cresciuto con essi, nel senso che li ho amati. La loro cultura, tutta quella consapevolezza frammista ad ingenuità che è una mano santa per la creatività e l’espressione. E continuo ad amarli benché il mio amore sia passato dall’emulazione di un quindicenne nostalgico a quello di un trentenne che sta facendo i conti col proprio tempo ma il cui pensiero continua comunque a correre lì, ai ‘70, anche se spesso in modo critico.
Proprio in questo senso nella Valle della Luna ho trovato alcune risposte, o anche un semplice contatto con un tempo passato.
Forse è stato semplicemente come sfiorare l’aura della sua eco. Nel 2005 ero in vacanza con degli amici troppo entusiasti e spendaccioni, per cui ci ritrovammo praticamente senza soldi. Tutti avevamo sentito parlare della Valle della Luna dando per scontato che fosse solo una leggenda metropolitana. Prescindendo per un momento dagli anni ‘70 e tutto il resto, è già una leggenda oggi l’idea di un posto meraviglioso e libero, nel senso anche di completamente gratuito. Insomma ci andammo.
Arrivammo di notte, la luna non era piena ma luminosa abbastanza per velare il posto di una polverina mistica e una debole morbida luce fiabesca. Il mattino seguente mi sembrò come l’alba dell’uomo; uscendo dalla piccola caverna dove avevamo trovato rifugio cominciai a scorgere l’immensità del granito che allo sguardo si componeva in una gigantesca cattedrale tra altre copiose architetture passate e future. Alle spalle il mare e il vento che complici da tempi geologici avevano scolpito e cesellato quei costoni di granito con forme, vidi un elefante di granito bere nel mare e su in alto su un costone il volto di un pulcinella rivolto al cielo.
Uno di quei posti dove è facilmente intuibile il motivo della credenza nel dio creatore.
Il posto inoltre era vivo, non era una leggenda. Nonostante l’ombra della decadenza ammantasse una comunque forte presenza umana, persone inoltre che difficilmente entrano in contatto le une con le altre, difficili da vedere tutte nello stesso spazio: i vecchi hippies e i fricchettoni giovani, un po’ nostalgici sia gli uni che gli altri, rasta punk-a-bestia, uno spruzzo di anime solitarie, artisti, stranieri, vagabondi, nudisti e anche sporadici gruppi di fighetti. Pensai immediatamente a un documentario o a un film, o a tutte e due le cose insieme, e un po’ meno immediatamente mi dissi, per frenarmi: “Ma figurati se non è stato già fatto qualcosa in quarant’anni che questa situazione esiste”, soprattutto in quei ‘70 così fecondi!
Feci delle ricerche scoprendo che sicuramente non esisteva del materiale organizzato in un film e difficilmente del materiale in genere.
Vidi il film davanti ai miei occhi e mi sembrò bellissimo. Mi mancava di conoscere Mimmo ed Antoine per capire che il film lo avrei fatto, in qualche modo. La Valle era un palcoscenico e le persone personaggi già pronti prima ancora di essere filmati. L’anno precedente con il regista Marco Serrecchia avevamo girato Islam Light, un documentario che ci ha obbligati a stare due mesi e mezzo con i beduini nel deserto. La Valle della Luna mi riproponeva qualcosa di simile: una natura quasi incontaminata e una tribù; diversa anche in termini di equivocità, ma che comunque invitava all’approccio antropologico. Inoltre spiccavano dallo sfondo alcuni individui emblematici, profondamente interessanti e soprattutto sinceri, che erano già personaggi, caratteri prima di entrare nel film.
Già me li vedevo, forse anche per insicurezza, come possibili protagonisti in un ipotetico film di Fellini, di Leone, Monicelli, o anche Pasolini e - perché no - Antonioni. Pensavo al cinema in quel periodo, a quanto mi sarebbe piaciuto avere la fortuna di poter attingere alla nostra gloriosa tradizione italiana. Visto il soggetto, avendo a che fare con l’aspetto prettamente ludico degli anni settanta più che con quello politico (di stampo più europeo), la prima cosa sarebbe stata l’emulazione o l’ispirazione di genere mystic-rock-on the road di marca statunitense. Io invece ci vedevo le maschere della commedia all’italiana oppure il registro poetico del neorealismo, come anche l’onirico felliniano o le dilatazioni temporali di Antonioni. Un turbinio di forme che trovano una unità (suoni che si accordano ad una tonica) in un sentimento mediterraneo e italiano che lì, tra il granito e la macchia di ginepri, si faceva forte, sul bel mare nostruum, sullo sfondo dei miti classici, archetipo letterario e quindi anche cinematografico.
Il fatto che non trovai una produzione, se non saltuari appoggi a produzioni “amiche” (non so se soltanto povere o più disperate di me), fu una sciagura per le mie finanze ma una fortuna per il film che in questo modo ha potuto pascersi di tutte le sue suggestioni cinematografiche e non che hanno avuto tutto il tempo di coagularsi in uno stile. Ho saltato lo step originale della sceneggiatura e ho cominciato subito a girare, a volte con una troupe e a volte da solo, ma rigorosamente vivendo lì, nelle grotte, insieme ai suoi abitanti, improvvisando, e alla ricerca di una intimità che a volte mi si è concessa con tutti i suoi tesori.
Quelle suggestioni cinematografiche, quei mentori che forse sarebbe meglio non nominare mai, le difficoltà economiche di produzione (era per me la prima produzione), il peso antropologico di questa gente, erano tutte forze contrarie alla leggerezza, alla ludicità del film ma per fortuna, e anche un po’ per quella ironia che non sempre mi anima, non sono rimaste schiacciate dai quei pesi. Nonostante il materiale raccolto fosse serio non ho mai ceduto alla retorica della nostalgia, che c’è ma senza discorsi pregressi, e non ho mai ceduto alla tentazione di prendermi troppo sul serio come regista, visto appunto il materiale importante che avevo, e non ho mai creduto di fare sociologia o filosofia, o che addirittura tutto questo fosse importante e necessario, che io potessi dire qualcosa di rilevante sull’argomento.
Forse soltanto istintivamente ho mantenuto con il mio soggetto un rapporto ludico, che mi ha permesso di giocare con le immagini e con i miei “personaggi”, che mentre diventavano i personaggi del mio film diventavano anche miei amici concedendomene la licenza.
Non ho le pretese dello storico o dell’antropologo, non rincorro la verità che semmai da sola si concede, pur sapendo che giocando abbiamo documentato qualcosa di importante, che sta sparendo, e forse se è documentato mentre sparisce, diventa qualcosa come un testamento spirituale collettivo, nel senso di comune a molti, che racconta qualcosa di un posto, della sua gente e del loro sogno-sogni. L’ho girato con pochissimi mezzi, inferiori al necessario, ma non ho rimpianti, a parte la scomodità e la fame che ho fatto patire alla troupe (e le difficoltà causate agli altri collaboratori).
Giovanni Buccomino