Gli adolescenti nel cinema italiano contemporaneo
L'
adolescenza, diceva François Truffaut, è "
l'età critica per eccellenza, l'età dei primi conflitti tra la morale assoluta e la morale relativa degli adulti, tra la purezza del cuore e l'impunità della vita"; un aspetto che il cinema italiano più recente pare aver deciso di scandagliare con attenzione, indagando con una frequenza inedita proprio questa età così unica, non a caso - probabilmente - al centro dello sguardo dei lavori più interessanti e da ricordare nel nostro cinema di questi primi anni ‘10.
L’apice a livello di densità si è riscontrato nell’ambito della 69^ Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, con ben quattro lavori - tra Concorso e sezioni collaterali - ascrivibili a tale filone:
L'intervallo di Leonardo Di Costanzo,
Acciaio di Stefano Mordini,
Bellas Mariposas di Salvatore Mereu, senza dimenticare
Un giorno speciale di Francesca Comencini (seppur con due co-protagonisti già diciottenni e inseriti nel mondo del lavoro, quindi già entrati in un’altra fase della vita). Tutti film in cui gli adolescenti affrontano il mondo con uno sguardo disincantato, e vengono mostrati finalmente “reali” come poche volte accaduto negli anni precedenti: un approccio alla vita adulta, il loro (così lontano e così vicino, ad esempio, a quello dei coetanei statunitensi immortalati nel controverso
Spring Breakers di Harmony Korine, presentato anch’esso a Venezia 69), che li rende specchio inevitabile e sincero dell'Italia del futuro, perlomeno di quello prossimo.
Non si tratta certo di una prima volta in termini assoluti, da sempre il cinema cerca di raccontare i giovani; ma la fascia socialmente considerata “giovane”, specie in Italia, si è rivelata nel tempo sempre più ampia superando in taluni casi la soglia dei 40 anni: facile, quindi, imbattersi in una storia con personaggi all’interno di questo “target” ormai molto generico, mentre trovarne che si focalizzino sui (cosiddetti) teenager è meno usuale, anche perché si tratta di una categoria più difficile da conoscere e quindi definire nella sua sfaccettata fisionomia. In passato è stato sicuramente più facile; poi, con una accelerata inedita, dagli anni ‘90 del secolo scorso la società si è fatta sempre più complicata e frammentata, e descrivere un’intera fascia d’età è parso impossibile, così come trovarne accettabili definizioni. E allora ecco che i sociologi iniziarono a parlare degli adolescenti come della “generazione X”, “Y”, “X/Y” e “Z” (tutte incognite matematiche, come “variabile non conosciuta” è la gioventù moderna), fino ad arrivare all'attuale “alpha”, che dovrebbe racchiudere i nati dopo il 2010. Si tratta di definizioni consapevolmente generiche e astratte tanto da non significare nulla, se non una conferma della difficoltà di capire e “inquadrare” gli adolescenti, incompresi e incomprensibili ormai anche per loro stessi. La pigrizia a livello produttivo e di scrittura del cinema italiano ha poi reso ancora più arduo e labirintico il percorso verso una giusta rappresentazione sul grande schermo.
Il mercato conferma quanto sia giusto (in ogni senso) dedicarsi a questo target: i giovani sono infatti i più assidui frequentatori delle sale cinematografiche, in base ai dati ISTAT, e la fascia d'età percentualmente più presente in sala è proprio quella dei teenager tra i 15 e i 17 anni (87.6%), seguita da quella 18-19 (85.6%) e 20-24 (82.8). Ma negli ultimi tempi le proposte vincenti della produzione cinematografica andavano dai lucchetti di Moccia alle “notti prima degli esami” di Brizzi: possibile che le storie d'amore contrastate e superficiali dei vari “3 metri sopra il cielo” e affini siano l'unico luogo in cui i ragazzi si sentano in qualche modo rappresentati? Se viene naturale riflettere sull’impossibilità di trovare “una” voce che rappresenti un’intera generazione, non sarebbe importante - ancor più doveroso - provare a dare contributi originali alla “discussione”?
A questa domanda hanno finalmente risposto “sì” alcuni autori, e la varietà in sala nel 2012 è stata quanto mai ampia. Oltre ai già citati film di Venezia 69, vanno ricordati almeno il depresso James di
Un giorno questo dolore ti sarà utile (con la regia di Roberto Faenza), il ribelle Nader di
Alì ha gli occhi azzurri (di Claudio Giovannesi), gli “isolati” Giacomo e Stefania de
L’estate di Giacomo (di Alessandro Comodin), i fratelli Elia e Maddalena de
Il comandande e la cicogna (di Silvio Soldini) o il gay Mattia di
Come non detto (di Ivan Silvestrini). E ancora l’ingenua Giovanna di
Pulce non c’è (di Giuseppe Bonito), o l’asociale Lorenzo di
Io e Te (di Bernardo Bertolucci). E nella stagione cinematografica precedente, impossibile non segnalare la “santa” Manuela de
I baci mai dati (di Roberta Torre) e l’“eretica” Marta di
Corpo Celeste (di Alice Rohrwacher), il pescatore Salvatore e la turista annoiata Martina di
Sul Mare (di Alessandro D'Alatri), come anche il disinvolto Luca di
Scialla! (di Francesco Bruni), con Filippo Scicchitano ormai volto di una generazione anche grazie al successivo (e veneziano) film di Cristina Comencini (senza dimenticare le sue apparizioni pubblicitarie in tv).
Tanti, numericamente, e anche capaci come mai prima di risultare aderenti alla quotidianità dello spettatore.
In particolare i film di Mereu, di Di Costanzo e di Mordini, così come quello di Giovannesi (presentato in concorso al Festival Internazionale del Film di Roma), hanno saputo
trovare la chiave giusta e i volti perfetti in esordienti “non-attori”, volti prestati al cinema (solo il tempo ovviamente dirà se sarà stato per loro un unicum o il primo passo di una carriera) e selezionati dai rispettivi casting in base all’aderenza d’attitudine con i personaggi, e non a doti artistiche o a particolare prestanza fisica.
Salvatore Ruocco, Francesca Riso, Anna Bellezza, Matilde Giannini, Sara Podda, Maya Mulas, Francesca Di Benedetto, Luca Dirodi, Serena Pinto, Nader Sarhan, Yle Vianello, Carla Marchese: ne sentiremo ancora parlare (quantomeno al cinema)? Non si sa e non importa, perché è stato proprio il loro essere “qualunque”, anche a livello artistico, la cifra aggiuntiva che ne ha caratterizzato gli esordi in sala. Una tendenza che se da un lato asseconda (anche inconsapevolmente) la tendenza televisiva dei divi “usa e getta della porta accanto” (tra tronisti e grandi fratelli), se ne discosta notevolmente per l’irregolarità dei volti e dei fisici dei ragazzi scelti - tra cui si notano anche palestrati metrosexual, ma soprattutto corpi sovrappeso, abbigliamenti poco curati e consuetudini tutt’altro che trendy - ma anche per abitudini di vita e ideali, e per una visione del mondo meno vacua.
I personaggi citati affrontano la vita con la consapevolezza di un futuro incerto, ma per la prima volta lo fanno senza arrovellarsi su cosa potrà accadere “domani” (si pensi al Valerio Mastandrea di Tutti giù per terra, per citare uno dei più noti esempi di giovani alla deriva degli anni ‘90, che invece era focalizzato solo su quel pensiero): la situazione sociale e lavorativa è talmente grave che gli adolescenti di oggi non se ne preoccupano più, la vivono come inevitabile e affrontano quindi la loro quotidianità tra sogni di gloria molto modesti (Anna e Francesca di "Acciaio", che con la loro avvenenza puntano a nulla più che lasciare l’odiata città natale, Piombino, magari grazie alla tv), un quotidiano tirare a campare senza prospettive (Mimmo de "L’intervallo", che vorrebbe solo vendere le sue granite in pace, o Nader di "Alì ha gli occhi azzurri", che si divide senza troppa convinzione tra tradizioni di famiglia e delinquenza) e un cazzeggio continuo con l’obiettivo di astrarsi dalla realtà circostante squallida e senza futuro (la logorroica Cate di "Bellas Mariposas", che parla a una immaginaria telecamera per creare un distacco virtuale da ciò che la circonda). Persone normali, quotidiane, che sanno risultare credibili senza essere per forza noiose né costruite a tavolino: essere adolescenti in questo momento storico significa vivere l’insicurezza in ogni aspetto della propria realtà, e proprio per questo affrontare la vita con una paura nascosta talmente nel profondo da non essere neanche più un problema. Da qui arriva la nostalgia per un’età che si sta ancora vivendo - ma non assaporando - e la necessità di distrarsi in ogni modo. Non considerare il futuro, finché non verrà a bussare alla porta di casa, e pensare anche all'eventualità di non aprirgli.
Anche le caratteristiche narrative dei film segnalati presentano una originalità “nuova”: non si tratta infatti di classici racconti di formazione, e se spesso l’ambientazione è comune (periferia industriale di provincia), questo non vuole essere e non è un tratto distintivo, perché adolescenti si è anche nella grande città. Il linguaggio è gergale e diretto, non costruito ad arte, e se la cultura di riferimento è “straniera” non c’è paura di farne uso, anche a costo di dover mettere i sottotitoli per farsi capire (sia il sardo di Mereu che il napoletano di Di Costanzo sono tradotti, così come l’arabo di Giovannesi). Prevalgono poi i personaggi femminili, e sopra a tutto - anche all’amore, alla scuola, alla famiglia - al centro di queste storie viene posta l’amicizia, che a quell’età pare essere indissolubile e inevitabile, àncora per non affondare nel grigiore circostante: un tema - fatte salve le pellicole corali alla Muccino o alla “Immaturi” - che invece è quasi inesistente quando i protagonisti dei film sono adulti, come se l’amicizia non fosse più a quell’età un valore fondante delle nostre vite (caso raro e per ciò ancora più prezioso quello di
Noi non siamo come James Bond di Mario Balsamo e Guido Gabrielli, presentato al Torino Film Festival 2012 e che su quel sentimento invece pone la sua ragion d’essere). Per far sentire il pubblico virtualmente accanto a personaggi così giovani, la scelta stilistica dei registi è poi quella di utilizzare spesso la camera a mano, accompagnandone da vicino le giornate, quasi come un compagno invisibile ma presente (arrivando fino al caso limite rappresentato dal film di Mereu).
Focalizzando l’attenzione sempre più su queste quattro pellicole in particolare, sicuramente le più convincenti nel racconto dell’adolescenza pur se per motivi e in modi differenti, si veda anche “chi” ha saputo dare ai giovani personaggi un respiro così ampio e attuale. Contrariamente a quanto avviene all’estero, come ad esempio in Francia (tra gli altri, Mia Hansen-Love) o negli Stati Uniti (Lena Dunham), in Italia gli autori di cinema hanno sempre almeno il doppio degli anni dei loro protagonisti, ma i più efficaci in questo senso hanno tutti caratteristiche in qualche modo “speciali”.
Salvatore Mereu (classe 1966) ha trasposto al cinema un racconto postumo di Sergio Atzeni scritto nel 1995, e lo ha mediato con la sua esperienza lavorativa nel mondo della scuola che lo ha portato da sempre a raccontare i giovani (dal suo esordio "Ballo a tre passi" a "Sonetaula", senza tralasciare l’esperimento scolastico "Tajabone").
Leonardo Di Costanzo, Mariangela Barbanente e Maurizio Bracci hanno scritto insieme il copione de "L'intervallo": la carriera del regista (classe 1958) rende evidente chi tra loro ha saputo apportare il maggiore contributo in tal senso, basti ricordare il documentario "A scuola" del 2003 e ancor più il recente "Cadenza d’inganno" (2011), in cui segue la crescita e la formazione del piccolo ragazzo di strada Antonio.
Stefano Mordini (classe 1968), invece, ha avuto in dono da Silvia Avallone (classe 1984) e dal suo romanzo "Acciaio" destini e personalità delle sue due co-protagoniste, a cui lui ha aggiunto l’esperienza documentaria nel raccontare l’industria e il lavoro.
Il più giovane del gruppo è
Claudio Giovannesi, classe 1978: nel suo caso la vicinanza anagrafica con i personaggi che racconta si può percepire, sono tanti e molteplici infatti gli aspetti delle loro vite che tocca nel suo film. Unico ad affrontare - senza dare risposte, ma ponendo fondamentali domande - la questione delle seconde generazioni di immigrati, delle difficoltà a conciliare tradizioni familiari e vita sociale, magari sullo sfondo di una provincia non proprio semplice in cui crescere (in questo caso Ostia). Nessuna visione a lungo termine di una vita che pare esclusivamente da vivere alla giornata, senza alcuna speranza che il futuro possa essere migliore, ma cercando solo (in questo caso anche con soluzioni criminose) di arrivare al mattino successivo ancora “vivi”. La naturalezza del racconto di "Alì ha gli occhi azzurri" nasce dal lungo lavoro svolto per il precedente documentario di Giovannesi, datato 2009 (e vincitore di una menzione speciale della giuria al Festival del Film di Roma di quell'anno), "Fratelli d’Italia", di cui il sedicenne Nader era uno dei tre personaggi principali, e la cui storia (vera) torna in buona parte anche nella sceneggiatura di finzione, regalando al film una ancora maggiore adesione alla realtà.
Nessuno degli autori citati, quindi, è avvicinabile per età ai personaggi dei rispettivi film, ma tutti in un modo o nell’altro vivono a stretto contatto con l’adolescenza, dimostrando un sincero interesse verso il tema, e hanno evidentemente affinato il loro sguardo su ciò che li circonda. Non più i giovani come immaginiamo - o vogliamo - che siano, quindi, ma come li vediamo da vicino, in attesa che qualcuno, anche in un paese gerontocratico come l’Italia, riesca a far parlare direttamente ragazzi che non siano sempre e soltanto i “soliti idioti”.
02/03/2013, 10:00
Carlo Griseri