Note dell'autore di "L'Aquila - Grandi Speranze"


Note dell'autore di
Io non sono aquilano. Sono stato la prima volta all’Aquila nel 2013, a quattro anni di distanza dal terremoto che l’aveva cambiata per sempre. Non l’ho mai vista prima, e questo “mancato appuntamento” è direttamente legato alla genesi della storia che parecchio tempo dopo ho deciso di scrivere. Quella volta, in realtà, ero andato all’Aquila insieme a un’amica con l’idea di un documentario che poi non è mai stato fatto. Mi ricordo precisamente – nonostante da allora siano passati più di cinque anni – le sensazioni che ho provato quel sabato mattina di gennaio. Avevo visto in televisione servizi e reportage nei giorni successivi al sisma, avevo letto e mi ero documentato, perché già dal divano di casa la storia di una città così importante che improvvisamente, nel giro di una notte, smette di esistere mi aveva colpito profondamente. Ma trovarmi lì, a camminare in quelle strade deserte e abbandonate, era diverso, forse stavo provando qualcosa di simile a quelli che pensano di sapere cosa sia la guerra e ne capiscono la reale crudezza soltanto quando ci si trovano dentro.
Nel giorno di quella mia prima visita erano passati quattro anni dal terremoto, eppure il tempo sembrava essersi fermato. Nessun negozio aveva riaperto, nessun abitante era tornato a vivere lì: una città fantasma. Somigliava davvero a uno scenario di guerra, o un’apocalisse. Ma non eravamo in qualche posto lontano dalla nostra cosiddetta civiltà, o nel futuro di un film di fantascienza. Ci trovavamo, io e la mia amica, a un’ora di macchina da Roma, nel cuore dell’Italia. Provai un senso d’incredulità e poi un moto di indignazione, ma subito dopo anche qualcos’altro, qualcosa di meno istintivo e più profondo, che rimase lì a lavorare dentro di me, e mi accompagnò nel mio ritorno verso casa. Non riuscivo a definirlo, ma intuivo che quel sentimento era all’origine della mia decisione di abbandonare l’idea del documentario e di cominciare invece a scrivere una storia di finzione ambientata all’Aquila. Sapevo che stavo andando incontro a qualcosa di molto rischioso: un racconto per forza di cose deve anche intrattenere, e sarei stato capace di farlo nel rispetto del dolore di chi all’Aquila aveva perso genitori, figli, case? Per alcuni mesi abbandonai l’idea del progetto e la ripresi soltanto quando realizzai che cos’era esattamente quella sensazione che avevo provato durante la mia prima visita: era un rimpianto. Un rimpianto struggente, pieno di malinconia, per qualcosa di bello che mi ero perso per sempre, una comunità che prima viveva e respirava in un modo suo, diverso da ogni altra città nel mondo, come sono diverse le persone le une dalle altre, e che adesso non esisteva più.
Era su quello che potevo lavorare, perché quel rimpianto era anche mio, e quindi lo potevo condividere: da lì è nata l’idea che è stata poi la base del racconto, il mio rimpianto è diventato quello di quattro ragazzini che non si sono rassegnati a perdere la loro città e decidono, nonostante tutto e tutti, di continuare a viverla. Attraverso di loro ho pensato che avrei potuto viverla anch’io e farla vivere alle persone che avrebbero visto questa storia.

Stefano Grasso

03/04/2019, 12:19