Note di regia di "Parthenope"
“In questa città di lebbrosi, io sono quello con le piaghe più belle.”
Dal film “Il grande inganno”
Un giorno, dovendo rispondere a una di quelle domande difficili, del tipo: “Che cos’è il sacro per te?”, mi è venuto istintivo rispondere: “Sacro è quel che non dimenticheremo della nostra biografia”. Questo film nasce così.
Dunque, per me, Parthenope, è, prima di tutto, un film sul sacro.
Quello che una donna, in settantatré anni di vita, non ha potuto dimenticare: il mare di Napoli e i genitori, il primo candido amore alla luce del sole e quello sordido e indicibile, l’estate perfetta di Capri e la sua spensieratezza, l’alba salata, la notte profumata, il mattino fermo; gli incontri fugaci, stravaganti o decisivi; la scoperta, da ragazzi, dell’erotismo, della seduzione e della vertigine della libertà, sentirsi vivi che più vivi non si può e sospirare per tutta questa vita; la disperata ricerca del sé, gli amori mancati o sfiorati, i dolori che ti precipitano nella vita adulta, la vita che accade e l’inesorabile scorrere del tempo, l’unico fidanzato che non ti lascia mai, e poi Napoli e il suo vitalismo esasperante, l’incredibile sempre dietro l’angolo, e tutti sempre pronti, come perennemente schierati dietro un sipario invisibile, ad andare in scena per regalare il caos, la volgarità, la sorpresa, il pittoresco, il promiscuo e tutto il resto.
Napoli è libera, pericolosa e non giudica mai. Come Parthenope.
E la libertà di questa donna sarà una costante alla quale non rinuncerà mai. A costo di abbracciare la solitudine. Perché, spesso, purtroppo, solitudine e libertà vanno a braccetto.
Napoli è il posto ideale per illudersi di trascorrere una vita imprevedibile e meravigliosa.
Il luogo ideale dove la nostra biografia diventa, come diceva Manganelli usando un’immagine perfetta, il disegno rovesciato di un tappeto.
Quel disegno lo intuiamo, ma non possiamo mai vederlo del tutto.
La vita di un essere umano non è nitida, non è logica. È enorme, e ci si perde dappertutto.
Noi proviamo a guardare la nostra vita. A mettere ordine. Ma è lei che non ci guarda.
È sempre altrove. Ed è una condizione estenuante che ci rende dubbiosi. E misteriosi.
E Partenope, come tutti noi, è dubbiosa e misteriosa.
“Tu ami troppo o troppo poco? Sta tutta qui la differenza”, le chiede a un certo punto un personaggio demoniaco del film, travestito da santo. E lo sta domandando a tutti noi. Lei non conosce la risposta e noi non conosciamo la risposta. Perché tutte le domande sono state fatte e tutte le risposte si sono rivelate imprecise, evasive, contradditorie.
È questa mancata conoscenza di noi stessi che ci rende, agli occhi degli altri, un mistero.
Partenope è un mistero.
Comunque, ci siamo abbandonati, poi siamo stati responsabili, poi siamo stati abbandonati.
È il procedere del tempo. L’ ambizioso tema di questo film. Quello scorrere della vita che contiene l’euforia e la delusione. L’amore e la sua fine. La fine della malinconia e l’inizio del desiderio.
Tutto il repertorio dell’esistenza, insomma, laddove è possibile contenerlo in un film.
E dunque, col passare del tempo, anche la vita napoletana, sbalorditiva e imprevedibile, si fa stantia. Partenope è stata abbandonata. Dalla gioventù, dagli sguardi, dagli addii improvvisi dell’emozione. Il mare di Napoli è diventato solo acqua.
Lo stupore si affievolisce.
Il grande inganno non inganna più. Si resta soli.
Si diventa quel che si è, diceva Nietzsche.
Allora Partenope lascia la città, per un luogo più anonimo.
Ora è adulta, lavora. Per quarant’anni va a letto presto, come scriveva Proust e come recitava De Niro. Ama troppo poco.
Quando ha settantatré anni e va in pensione, deve cambiare ancora, imparare a vedere il suo passato, il sacro dentro di lei. Tornare ad amare troppo. O immaginare di farlo.
Dunque, tornare a Napoli, la città snob e selvaggia che non cambia mai e, ancora una volta, dopo tanti anni, sa illudere, regalando, forse, l’unico sentimento che ci tiene in vita fino all’ultimo: la capacità di meravigliarci.
Allora Parthenope sospira. Come faceva da ragazza.
Paolo Sorrentino