Note di regia de "Il Laboratorio"
L’idea del film nasce da una matrice autobiografica: Antonio Sgambati, il co-fondatore del Laboratorio, è stato mio professore alle Scuole Medie di un piccolo paese della provincia napoletana, a questo si aggiunga che Vittorio Avella, ai miei occhi di studente del borghese e conservatore Liceo Classico di Nola, era l’unico artista vero di cui avessi conoscenza, da cui poter andare in studio dopo la scuola, in una bottega che non fosse la solita topaia bohémienne intrisa di solitudine e senso di sconfitta, ma che fosse anzi un cenacolo di persone accoglienti e sorridenti in cui poter intercettare messaggi sull’arte e la politica altrimenti impensabili in provincia.
Vittorio e Tonino sono stati l’esempio della possibilità concreta del fare artistico pur all’interno di una intrisa di conformismo e consumismo. A questa forma di pensiero unico Avella e Sgambati hanno sempre risposto con il loro fare: letteralmente gli unici artisti veri agli occhi di un adolescente pieno di vita ingabbiato in una cittadina di impiegati di banca.
Molti anni dopo Daniela Allocca, coautrice del film e scrittrice, per la sua prima raccolta di poesie, non riusciva a trovare un editore in grado di accogliere la sfida, almeno fino ad imbattersi nel Laboratorio. Con le parole di Daniela: “Il lavoro al mio libro ha rappresentato una vera avventura. Entrare ne “Il Laboratorio” e conoscere Vittorio Avella ha significato entrare in contatto con una Storia della sperimentazione artistica della scena napoletana di cui ero quasi completamente all’oscuro. Ogni visita in cui avrei dovuto discutere di un passaggio legato alla lavorazione del libro si trasformava in un incontro con personaggi che rappresentano la vita artistica della città, mentre nello studio di Nola venivano presi da cassetti e scaffali polverosi esemplari unici di progetti artistici e di pubblicazioni con artisti internazionali.
Ogni libro, ogni stampa racconta una storia, e scopro che tra Napoli e Nola sulla stessa linea della circumvesuviana che prendo io, nei giorni dispari lunedì, mercoledì, e venerdì si muove un artista e un editore che ha seguito progetti ancora più coraggiosi, che con il suo operato riesce a tenere in vita l’unica stamperia d’arte dell’Italia del Sud. Il profumo del suo sigaro lo precede, cosi come la spilletta dell’A.N.P.I. sempre in bellavista come fiore all’occhiello della giacca. Eppure in rete non trovo niente, se chiedo in giro solo gli addetti ai lavori sanno oppure chi ha lavorato con lui. Mentre guardo Cinzia De Matteo la sua allieva e collaboratrice che lavora al torchio nel viavai del piccolo laboratorio mi chiedo: quanti tesori nasconde la vita di Vittorio? Cosa mi racconterà al prossimo incontro?
Imparo che quando ho bisogno di consultarlo devo avere almeno due ore a disposizione. Imparo che se anche non dobbiamo fare niente per il libro ma non ci vediamo da giorni ogni tanto meglio andarlo a trovare, così come si vanno a trovare i maestri, perché loro avranno sempre da insegnarti qualcosa e intanto inizio a desiderare che questi tesori di esperimenti artistici, incontri con intellettuali, poeti locali, nazionali, internazionali diventi patrimonio di tutti, inizio a desiderare una narrazione nuova che parta da questa città e dalla provincia, la narrazione delle sperimentazioni artistiche che ci sono state e ci sono.”
Alla luce di tutta questa ricchezza di significato, l’idea che come autori abbiamo seguito è che vi sia una serie di unicità nel percorso del Laboratorio: quella di fare arte mettendo in primo piano il processo, la dimensione collettiva e relazionare del fare insieme. Questo atteggiamento di fatto si rivela antitetico a quello di un sistema dell’arte spesso irrimediabilmente minato da derive personalistiche ed elitarie. Una modalità anomala questa del Laboratorio, che negli anni ha dato vita ad una comunità artistica il cui principale merito è sicuramente quello di aver portato l’arte dove non c’è arte.
La mia ambizione di regista è stata quella di raccontare questo virus nei suoi 45 anni di attività, e di farlo con un linguaggio contemporaneo, privo di nostalgia e lontano dalla retorica dell’amarcord, ma attraverso un viaggio sentimentale. In effetti questo anno di lavorazione è stato un anno di amore immenso, di sorrisi, di passione, di gratitudine, di condivisione.
Per tutta questa serie di ragioni abbiamo costruito un film che fosse stilisticamente un ibrido, un esempio di cinema-verità contaminato da influenze mutuate da altri ambiti espressivi - principalmente il cinema sperimentale e il film d’arte. Inoltre, coerentemente con lo spirito del Laboratorio e con la sua vena patafisica ho deciso di costruire un film ipertestuale, nel quale sono inseriti spazi di invenzione e in cui il racconto si alterna a momenti performativi, in un continuo gioco di rimandi tra questi due piani.
Senza pretese enciclopediche, questo dispositivo narrativo è reso possibile anche attraverso il ruolo attribuito ai protagonisti: una serie di esegeti di una storia che assume forme diverse in base a chi la racconta, ri-mappandola di volta in volta con gli strumenti del visivo, della parola, del suono, in quello che di fatto è un racconto corale attraverso tanti testimoni che hanno condiviso l’esperienza del Laboratorio in questi anni. Come contraltare a questa coralità la figura iconica di Vittorio Avella - con i suoi gesti, i suoi sguardi, il tono di voce, il fumo del suo sigaro - è chiamata a fare da sintesi e riportare tutta questa abbondantissima polifonia ad un’unica testimonianza di vita.
Tutto questo ha contribuito a creare un racconto vivace e poetico, che ha l’intendo di restituire quella attitudine unica, quella mentalità, quello spirito che ha reso il Laboratorio una esperienza unica nel mondo dell’arte, in una parola: quel sogno.
Pasquale Napolitano21/01/2025, 09:02