Sinossi *: C’era una volta un uomo. Era un “uomo schivo e burbero, silenzioso, che amava l’abbraccio ampio e caloroso della sala forse anche perché risarciva le sue private solitudini”; un uomo diffidente, che aveva paura di attraversare una piazza o di entrare in un bar, timoroso di ritrovarsi al centro di una molteplicità di sguardi, sconosciuti e indagatori.
C’era una volta “un regista all’antica”, che possedeva una morale conservatrice del lavoro cinematografico, non un regista legato alle regole ma ad un professionismo scrupoloso, un sapiente artigiano del linguaggio delle immagini, rispettoso dei desideri del pubblico e fiducioso nella “comunicazione con le masse”. Un regista che non stimò mai molto la critica ma che si cimentò,con passione, in un cinema “invidiabile”, e non solo perché non ne esiste più l’eguale.
C’era una volta Pietro Germi.
La sua regia, maniacalmente controllata, così come l’americanismo e l’eclettismo, furono sempre le sue marche distintive. Germi credeva nella costruzione forte del racconto, nella pianificazione rigorosa del modo di produzione,nell’accordo fra esigenze espressive e comunicative.
Uno dei suoi maestri e modelli fu Alessandro Blasetti, conosciuto al Centro Sperimentale negli anni ‘30. A uno dei padri del cinema italiano lo accomunavano alcune tematiche: in primis la famiglia, vista come ricerca fiduciosa di un’unità ideale ma anche come constatazione amareggiata della sua disgregazione; e poi il Padre, figura celebrata e poi criticata. Luciano Vincenzoni ricorda che “teneva al suo moralismo come ad un bene prezioso e indiscutibile”, mentre Mario Sesti afferma che la collera era il genere che praticava con effetti di maggiore controllo e virtuosismo. “Sul set la usava a freddo recitava, per ottenere gli effetti che voleva da attori e collaboratori.”
Ma questa collera rientrava nel carattere di un uomo chiuso, sentimentale e, a tratti, pieno di amarezza. Soprattutto negli ultimi anni della sua vita si sentì pervaso da un costante senso d’isolamento, rintracciabile già nella sua infanzia e nella sua adolescenza.
Se un film come Serafino, prodotto nel marasma del ‘68, si scagliava contro la società moderna mentre tutto, intorno, invocava a gran voce un cambiamento imminente e irreversibile che quella società finalmente permetteva, Alfredo Alfredo, del ‘72, non nascondeva più quali delusioni, emozioni e risate si nascondano nelle pieghe della vita, e non solo in quella di coppia.
Nel suo cinema, non c’è Legge in grado di regolare l’amore e il rapporto tra i sessi, sentimenti e valori quasi animali, antropologici, che legano gli individui a queste relazioni e ai doveri famigliari con la stessa forza che li tiene a queste prigionieri, spingendo infine un individuo a liberarsene.
Così, finiti i rapporti con la famiglia e i legami con l’altro sesso, non resta che una relazione da salvaguardare come un bene prezioso, quasi come un risarcimento alle aspettative mancate e mai realizzate negli altri rapporti: l’amicizia.
Proprio sull’amicizia, infatti, è completamente incentrato il suo ultimo progetto, Amici miei, scritto dall’autore ma diretto da Mario Monicelli (Germi morì il primo giorno delle riprese del film, il 5 dicembre 1974).
Il film mostra con precisione la ricerca di un equilibrio tra cinismo e sentimentalismo, tra commedia e malinconia, descrivendo un paesaggio italiano alla deriva, vicino a una scomparsa definitiva. Un film dove si avverte, tra l’altro, l’imminenza della morte, che si affronta, inesorabilmente, soli.
Dopo aver rappresentato efficacemente gli aspetti più solari e divertenti (non solo in Amici miei ma anche in Signore&Signori) di questo sentimento (l’amicizia), Germi sembra ora volerne svelare anche il lato più oscuro. Ma anche in questo caso il suo cinema ha parlato con chiarezza dall’inizio alla fine. Dal protagonista del Testimone a quello di Alfredo Alfredo, il bisogno e il terrore della solitudine corrono come un torrente sotterraneo, mai dichiaratamente oggetto del racconto.
Tutti i suoi personaggi maschili più memorabili, dal pretore Guido Schiavi di In nome della Legge al barone Fefé di Divorzio all’italiana, da quello del Ferroviere a quello di Un maledetto imbroglio, vivono una sorta di autoreclusione mascherata o aggressiva, o quantomeno finiscono per arroccarsi in un orgoglioso isolamento incerti se sia la vita a metterli ai propri margini o se siano essi a escludere e a sognare il resto del mondo.
Pietro Germi viveva solo dall’inizio degli anni ‘70, in un modesto appartamento descritto spesso in stato di abbandono. In questo periodo manifestò, ancora di più, una percezione ferocemente disperata di tutto ciò di cui la società che lo circondava sembrava ansiosa di sbarazzarsi, quando proprio la sua biografia, invece, gli ricordava in continuazione la sua incapacità a stabilire legami definitivi o a sapersene liberare (come delle sue due famiglie, tanto da chiedere di essere seppellito insieme alla prima moglie).
L’unica alternativa nobile era – ed è – l’amicizia, relazione non rovinata dai sentimenti, un legame disinteressato, invisibile e forte, che le persone intessono senza ragione d’interesse materiale, ma solo per il piacere di sentirsi vivi, di essere liberi, al contrario di come la famiglia, le leggi e la società impediscono di essere.
Il culto dell’amicizia, inoltre, rientrava in quell’ immagine di uomo all’antica, che non si tirava indietro di fronte a un’arringa e manifestava con foga la sua polemica civile (era un conservatore ma anche un accanito divorzista!), un formidabile narratore, attento osservatore del quotidiano e “sensibile” a un certo moralismo. Nelle discussioni con Olga, la sua seconda moglie, ripeteva spesso: “i tabù sono fondamentali!”.
Pietro Germi dimenticato? Non c’è da meravigliarsi.
Il regista pluripremiato con Nastri d’argento e Palma d’Oro, Premio Oscar per Divorzio all’Italiana, nutriva antipatia per le forme intellettualistiche dell’arte contemporanea, detestava il jazz, la pornografia, la volgarità, l’esistenzialismo e Pollock, ma soprattutto il comunismo e la contestazione.
Lui, socialdemocratico, sostenitore di Saragat, sognava una realtà completamente diversa da quella che c’era, l’emozione di un inizio e di un “‘68” che sembrò non realizzarsi mai nella sua vita.
La malinconia che si leggeva in alcuni “sguardi d’autore” si rispecchiava, prepotentemente, nell’impossibilità di frenare una trasformazione ineluttabile e devastante che avveniva davanti a lui.
Ma per questa consapevolezza la società degli anni ‘70 non era ancora matura e Germi non poteva essere compreso fino in fondo.
Avrebbero dovuto passare ancora molti anni prima che la situazione apparisse chiara, prima che le conseguenze, le delusioni e i cambiamenti del ‘68 fossero valutati.
Germi aveva semplicemente, e un po’ profeticamente, precorso i tempi.