Note di regia del mediometraggio "So che c’è un Uomo"
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So che c’è un Uomo” è un film strano. Eppure la materia trattata è cosi sentita che ogni elemento autobiografico profuso in regia sprigiona un forte bisogno di catarsi se non di esorcismo. Un “affare di famiglia” dunque, che riserva allo spettatore il ruolo non di voyeur bensì di ospite un po’ a disagio e non del tutto gradito.
Qui la famiglia è vista come un nucleo attorcigliatosi all’interno, i cui elementi sono disposti e seguiti nello spazio come un entomologo che osserva i propri insetti muoversi dentro una scatola. Nell’animo di questi personaggi c’è un universo sull’orlo del collasso, che a volte può essere silenzio e sopportazione, oppure grido e rivolta. Finanche morte.
Il mio sguardo impietoso su di loro vuole sì cogliere la fragilità di certi rapporti, ma soprattutto le incongruenze e le ambiguità dei nessi che li tengono uniti.
Il tutto è raccontato in maniera ellittica, frammentaria, allusiva. La narrazione procede per accumulo di strati, come in un graduale processo di saturazione ; spia i personaggi, ne coglie ora i gesti, ora le parole, senza mai definirli a tutto tondo. A spiazzare, tuttavia, volevo fosse il paesaggio e gli animali, o comunque ciò che segna i limiti dell’umano. Il film è popolato di un bestiario domestico particolare, in cui l’accezione “domestica” va intesa - freudianamente - come perturbante, sinistra. Tutti i giorni, nel corso delle varie fasi di lavorazione, era come se la materia del film mi respingesse e mi attraesse contemporaneamente. Alla fine quel che ne è venuto fuori è un film emotivo e implacabile, per nulla indulgente, che cerca di penetrare in alcune cose della realtà che sono profondamente mie, ma che forse non riguardano solo me.
Gianclaudio Cappai