Note di regia di "Il Vegertariano"
Nelle campagne italiane bagnate dal fiume Po vivono da anni numerosi indiani, provenienti soprattutto dalla regione agricola del Punjab. Molti hanno trovato lavoro come mungitori negli allevamenti bovini, non solo perché tale mansione non è più gradita agli italiani, ma anche, pare, per la particolare attenzione che avrebbero nella cura delle vacche, per loro sacre.
E’ una realtà che mi ha subito incuriosito. Sono andato a vedere gli allevamenti dove gli indiani lavorano. Ho visitato i loro templi, grandi e affollati come quello sikh di Novellara, oppure minuscoli e sperduti nella campagna come quello induista di Fabbrico. E mi sono fatto raccontare le loro storie. Una mi ha colpito in modo particolare.
Un indiano, vegetariano come molti altri, da semplice mungitore era diventato responsabile di un allevamento di vacche da latte.
Fra i suoi compiti ci sarebbe dunque stato anche quello di decidere quali animali, non più produttivi, avrebbero dovuto essere avviati al macello. Questa mansione l'aveva mandato completamente in crisi, obbligandolo a fare i conti con un nucleo secolare di convinzioni come la metempsicosi e il rispetto per tutte le forme di vita.
La vicenda mi è sembrata uno spunto molto bello per un film.
Mi avrebbe permesso, fra l'altro, di intrecciare, in un contesto attuale e insolito, due tematiche a me care: animalismo e filosofia indiana. Ulteriori perlustrazioni sul territorio hanno fornito a poco a poco anche uno “sfondo” a quella prima traccia: un mondo agricolo in disgregazione, con le relative difficoltà di sopravvivenza da parte dei piccoli allevatori italiani; la presenza di un grande fiume, il Po, che alimenta negli indiani la memoria del sacro Gange; i loro ricordi dell’India; i conflitti familiari fra immigrati di prima e seconda generazione; una storia d’amore fra ragazzi di culture diverse.
Ne è scaturita una sceneggiatura dal taglio fondamentalmente realistico, che però è stata arricchita, quasi per contrasto, da citazioni tratte dagli antichi testi sacri indiani. I Veda e le Upanishad offrono straordinari passaggi poetici in cui si dispiega l’idea tutta indiana di una fortissima interdipendenza fra tutte le forme di vita - uomini, animali, piante.
Ed è proprio questo, in ultima analisi, il cuore della storia raccontata: come reagisce una persona profondamente legata a quella cultura, una volta catapultata in un mondo, il nostro, che ha fondato la sua idea stessa di progresso sull’assoggettamento della natura all’uomo, sullo sfruttamento prevalentemente economico delle risorse naturali?
Parlare di questo significa anche raccontare una storia di immigrazione atipica: la radicale scelta di vita del protagonista della storia non è il retaggio di un mondo arcaico e superato, è l’indicazione di un possibile futuro.
Roberto San Pietro