Azione. Movimento. Dinamismo. Tre termini per definire l’estetica del cinema di Pasquale Squitieri. Impegno e denuncia civile. Due parole per sintetizzare l’etica dei suoi film.
Procuratore legale, giornalista pubblicista, studioso di diritto penale e sociologia criminale, Squitieri sceglie la via del teatro ed esordisce come attore per la regia di Francesco Rosi (1963) e come autore (La battaglia, Spoleto 1968). Debutta nel cinema con un film prodotto da Vittorio De Sica, Io e Dio (1969), opera polemica e di de...visualizza tuttoenuncia civile che anticipa le tematiche dei suoi film successivi. Come altri autori, si lascia coinvolgere dalla sfida linguistica del “western all’italiana” lanciata da Sergio Leone, con due pellicole di pregevole fattura (Django sfida Sartana, 1969, e La vendetta è un piatto che si serve freddo, 1971) firmandole con lo pseudonimo William Redford.
Da Camorra (1972) in poi Squitieri racconta una storia italiana “scomoda”, clandestina, che molti non vorrebbero vedere né ascoltare. Come le organizzazioni criminali all’ombra della politica (L’ambizioso, 1975; Corleone, 1978), il pentitismo (Il pentito, 1985), la droga (La musica nelle vene, 1972; Atto di dolore, 1991, film adottato in tutte le scuole superiori di Francia), il terrorismo (Gli invisibili, 1988; Corsica!, 1990), le “morti bianche” (L’avvocato De Gregorio, 2003), l’immigrazione (Razza selvaggia, 1980; Il colore dell’odio, 1987). Altro percorso tematico caro a Squitieri è quello storico-politico ben rappresentato da film di successo (I guappi, 1973; Il prefetto di ferro, 1977; Claretta, 1984; Russicum, 1990; Stupor Mundi, 1998; Li chiamarono Briganti!, 2000).
Dalla sua ricca filmografia si evince che Pasquale Squitieri è un autore più unico che raro: perfetta conoscenza del linguaggio e dei tempi cinematografici, coraggio nello scegliere e trattare soggetti scottanti, autorialità nell’attraversare generi differenti rispettando sempre le regole dello spettacolo.