Sinossi *: La diaspora del popolo tibetano, dal 1950 ai giorni nostri, raccontata attraverso un crescendo di testimonianze di monaci e leader spirituali, ex prigionieri politici ormai ottantenni e giovani fuggiti dall’occupazione o nati profughi in India.
Il film è ambientato in India, tra Dharamsala -sede del Governo Tibetano in esilio- e gli altipiani imponenti e spettacolari del Laddak -soprannominato “Piccolo Tibet” per la forte somiglianza ambientale e culturale con il vicino Tibet-. L’India è il Paese che ha ospitato il maggior numero di profughi tibetani, garantendo loro quella libertà d’espressione sociale, culturale e religiosa che tutt’oggi gli è negata nel proprio Paese d’origine.
Il documentario inizia con le vicende dell’occupazione cinese e la propaganda che l’ha accompagnata. I cinesi erano venuti, agli occhi di tutti e così come sbandieravano i militari, per supportare lo sviluppo economico del Paese e non già per motivi di conquista. La deriva autoritaria che ne è seguita è bene illustrata da Palden Gyatso e Ama Ade, due ex prigionieri politici, oggi ottantenni, che hanno passato più di trent’anni nelle carceri cinesi, subendo privazioni e torture di ogni sorta. Da quell’occupazione, circa 80.000 tibetani fuggirono nei Paesi confinanti seguendo la loro guida spirituale, il XIV Dalai Lama.
Il documentario prosegue con il racconto, dall’alba al tramonto, dela vita quotidiana all’interno dei cosiddetti “villaggi dei bambini tibetani”. Villaggi sorti in tutta l’India ed attivi da oltre 50 anni con l’obiettivo di educare e formare i bambini e i giovani nati in esilio così come quelli che ogni anno continuano a fuggire dal Tibet e che giungono a piedi, accompagnati da guide o addirittura da soli. Qui i bambini, spesso orfani, vengono accolti in vere case ed accuditi da “mamme” che si prendono cura di circa 10-12 bambini ciascuna. Qui imparano e praticano, con rigorosa dedizione, la cultura, la lingua e il buddhismo, così come i lavori domestici. Un progetto che testimonia della grande attenzione che i tibetani tutti hanno deciso di riservare all’educazione delle nuove generazioni, affinché queste contribuiscano a mantenere viva la cultura di un intero popolo.
Tenzin, Lhamo e Khunsang sono giovani attivisti che organizzano dibattiti e dimostrazioni e hanno seguito quell’invito del Dalai Lama che chiede alle nuove generazioni di assumersi la responsabilità di rivendicare i diritti del proprio popolo.
Un altro giovane è il monaco Jahang, che racconta la sua fuga dal Tibet. La sua testimonianza offre uno scorcio sull’attuale situazione di violazione dei diritti umani fondamentali in Tibet, così come sul progetto del governo cinese di annientamento totale della cultura e della religione tibetana. Jahang ha perso un fratello che si è autoimmolato, come tanti altri giovani in questi ultimi anni. E su questo gesto estremo e pacifico, perché colpisce nessun altro che se stessi, e sul suo valore si esprimono gli altri protagonisti del film. Un gesto dimostrativo contro la privazione della libertà d’espressione affinché il mondo intero prenda consapevolezza di cosa significhi, oggi, vivere in Tibet. Un gesto che, come dice uno dei nostri protagonisti, “è carico di molte speranze”.
Il governo tibetano in esilio ha dichiarato che dal 1949 ad oggi circa 1 milione e 250 mila persone hanno perso la vita a causa della repressione cinese. 137 giovani si sono auto-immolati. L’unica possibilità per preservare la propria cultura e la propria identità è quella della fuga e della vita da profugo. In questa drammatica realtà irrompe con ironia il messaggio finale del Dalai Lama, che suggerisce ai profughi di tutto il mondo di non perdere mai la determinazione, il coraggio e la speranza.