Note di regia del film "Mio Fratello è Figlio Unico"
Prima di poter parlare con un certo distacco di questo film ho dovuto aspettare di arrivare alla fine del suo percorso.
Infatti mai come questa volta mi sono prefisso di utilizzare il film come un processo di scoperta, di pedinamento, di curiosità. Questo mi ha messo nella condizione di cominciare il film con poche incrollabili incertezze.
Ho apparecchiato il set come se fosse una cena preparata con amore, con gli spunti che per le ragioni più varie mi sembravano irrinunciabili, invitando a tavola due attori, persone intelligenti e acute ancora prima che attori di grande talento. Ho steso come tovaglia una storia che riguarda me e questa nazione. Poi ho decorato la tavola con un paesaggio strano che appartiene alla memoria collettiva del nostro paesaggio novecentista. Mi sono messo ai fornelli col desiderio di sperimentare un discorso di stile basato sulla naturalezza. Come ingredienti ho usato la voglia di raccontare un film attraverso correnti emotive nascoste, il voler nascondere il tempo storico in cui la storia si svolge, ma allo stesso tempo non rinunciare del tutto ad un patrimonio che mi consente di poter alludere ad un tempo condiviso e ancora attuale. La voglia matta di girare guardando e non disegnando. Il desiderio di fare non un film politico, ma un film in cui ci sono esseri umani che parlano di politica.
Alla fine ho servito a tavola una cena fatta di questi ingredienti – alcuni sottili, altri belli
sostanziosi – assieme alla decisione di voler dare il controllo del set all’occhio e non all’immaginazione. La cena è pronta: il film.
Questi elementi mi hanno portato ogni giorno sul posto di lavoro con l’intenzione di mettere in scena un evento che avesse emozioni autentiche, un grado alto di imprevedibilità, una spericolata sfida quotidiana di voler girare senza programmare, con fretta e freschezza, cambiando movimenti e intenzioni ad ogni ciak, chiedendo a operatori ed attori di sentirsi liberi di vivere la scena come se fosse qualcosa di vero. Ho – per fare una battuta che non è tanto lontana dal vero - lasciato tutti liberi di fare quello che volevo io. Insomma, questo modo per me diverso mi ha portato a sentirmi immerso dentro la storia così intensamente, da farmi perdere la capacità di essere in grado di parlarne fino in fondo. Del resto chiedere alla scrittura di parlare di cinema è paradossale. Come chiedere all’architettura di parlare di musica, come diceva qualcuno che non ricordo chi.
Per questo taccio e lascio parlare il film.
Daniele Luchetti