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VENEZIA 71 - Giulio e il CinemaSinossi *: Il primo contatto con l’ex sottosegretario avvenne nell’agosto del 1989. Il mio amico e maestro Alberto Farassino stava montando un libro collettivo di materiali vari, sul cinema italiano fra il 1947 e il 1949. Era il catalogo di una retrospettiva torinese. In copertina il grafico aveva colorato di rosso la brace di una sigaretta di Anna Magnani. Lavorai con Alberto a compitare le 13 domande che con le relative risposte epistolari stanno in tre pagine e mezzo di questo libro che raccomando ancora a tutti. Rileggendole ritrovo il nucleo delle nostre sedute. Ma due espressioni però di Andreotti mi colpiscono e le riporto. La prima è una sintesi in linguaggio sportivo del rapporto fra i film esteri e i nostri nel primissimo dopoguerra: «Quattro a uno».. Trovate voi un’espressione più felicemente sintetica per descrivere lo stato del nostro cinema di allora! Quattro a uno. E gli esercenti questo «uno», che erano i film italiani, non lo volevano nemmeno. Si dovette imporglielo con la programmazione obbligatoria. Quando Andreotti molla, il cinema italiano faceva il 56% di incassi. L’altra è una battuta che avevo già letto in alcune interviste dell’inesperto sottosegretario 28enne: «Mi trovavo come 1’asino tra i suoni». Consultai un dizionario italo-ciociaro. Lu ciuccio ‘miezzo a li suoni. La facezia evoca la figura del mulo alla festa di paese con la banda che impazza. La traduzione - ad sensum - più fedele di questo detto ritengo sia «L’asino frastornato». Il detto indica una persona che si trova in mezzo ad un gran numero di fonti di informazioni (che nel detto sono rappresentati dai suoni). Pertanto l’impiego è indicato per chi si trova a dover giudicare o dover decidere, e le tante voci da ascoltare giocano il ruolo di elemento di disturbo più che di aiuto. Me la ripeterà quattordici anni dopo, e sta nel materiale non montato che finirà in un immenso dvd. Perché questo detto ciociaro? Forse era un vezzo per ricordare a tutti la sua origine umilissima, paesana, campestre? L’essersi mantenuto da anni perché il babbo maestro era morto? L’aver fatto la claque con Dina Galli ai tempi di Felicita Colombo? L’aver fatto l’impiegato all’ufficio delle tasse sul celibato? L’esser divenuto malfidato a causa di queste sue origini? Fatto sta che l’asino frastornato Andreotti imparerà a tempo di record a cavarsela. Questo è l’argomento del nostro film. Dieci anni dopo lavoravo a un libro sullo sceneggiatore per eccellenza del democristiano Sordi: l’ex comandante partigiano Rodolfo Sonego della brigata Garibaldi sull’altopiano di Belluno, ex capo militare comunista numero 8 della lista degli uomini da deportare del golpe De Lorenzo. Alla fine di queste sedute, Sonego mi disse «Voi non avete capito niente di niente. Se volete capire cosa è successo veramente in quegli anni, dovete andare da Giulio Andreotti: Andreotti ha ammazzato cinque film, ma ne ha fatti fare cinquemila». Avevo per compagno il più scafato cacciatore di carte del cinema italiano, con cui lavoravo su Italia Taglia. Andammo nell’ufficio che il senatore aveva in piazza San Lorenzo in Lucina messogli a disposizione dall’Unione Nazionale Incremento Razze Equine, UNIRE, che tanto gli doveva. Andammo senza la presentazione di nessuno, ma aiutati dall’uomo che dirigeva una struttura inventata cinquant’anni prima da Andreotti, Gaetano Blandini. Registrammo con due telecamere 21 sedute in cui tutto era preciso, documentato, riscontrato, verificato. Se qualche pezza d’appoggio mancava, la si cercava per l’incontro successivo. Andreotti non pose limite a nessun tipo di domanda. La sola cosa che non avemmo il coraggio di chiedergli era di indossare un abito di scena che garantisse la “continuità”. Ce lo ritroviamo vestito con 21 abiti diversi. Quando Pier Luigi Raffaelli ed io ci congedammo, Andreotti ci rimase un po’ male. Disse solo «Voi non potete immaginare il sollievo e il divertimento che mi avete portato...». Era estate, fece venire su dal bar delle granite per noi e la troupe.