Sinossi *:
Ibi è nata in Benin nel 1960, ha avuto tre figli e nel 2000 in seguito a seri problemi economici ha scelto di prendere un grande rischio per cercare di dare loro un futuro migliore. Li ha lasciati con sua madre e ha accettato di trasportare della droga dalla Nigeria all'Italia. Ma non ce l’ha fatta. 3 anni di carcere, a Napoli.
Una volta uscita Ibi rimane in Italia senza poter vedere i figli e la madre per oltre 15 anni. Così per far capire loro la sua nuova vita decide di iniziare a filmarsi. Racconta se stessa, la sua casa a Castel Volturno dove vive con un nuovo compagno, Salami, e l’Italia dove cerca di riavere dignità e speranza.
Dalle immagini che Ibi ha realizzato è nato questo film.

NOTIZIE 'Ibi'



Note:
La storia
Abbiamo conosciuto Ibi a Castel Volturno tre anni fa, nel luglio 2014.
Stava piantando dei peperoncini africani nel giardino della sua villetta.
Ibi è nata in Benin ed è vissuta in Costa D'Avorio fino al 2000.
Una donna alta, grande, piena di energia. Francofona e musulmana, musulmana d'Africa, senza gli stereotipi estetici dell'islam, oggi spesso mediatizzato.
Ha avuto tre figli. Nel 2000 in seguito a seri problemi economici sceglie di prendere un grande rischio per cercare di dare un futuro ai suoi figli. Lascia i figli in Benin con sua madre e accetta di trasportare una grossa quantità di droga dalla Nigeria all'Italia.
Purtroppo non ce la fa a superare il confine.
La polizia di frontiera capisce che c'é qualcosa di strano nel suo viaggio, trova la droga e l'arresta.
3 anni di carcere. A Pozzuoli, Napoli.
3 anni durissimi per Ibi, distante dai figli e incapace di aiutarli in alcun modo.
Incollata al suo destino di viaggiatrice illegale e colpevole.
Ma 3 anni che hanno cambiato profondamente il suo carattere. Conosce un’assistente sociale volontaria con la quale costruire un percorso di pena alternativa al carcere.
Per buona condotta, alla scadenza del terzo anno, il giudice decide di concedere a Ibi gli arresti domiciliari, ma Ibi non ha alcun domicilio ovviamente e viene quindi ospitata in una casa molto particolare: quella che i padri comboniani hanno dedicato a Miram Makeba a Castel Volturno, il comune più africano d'Europa dove Mama Africa è morta nel novembre 2008.
In quegli anni a Castel Volturno Ibi conosce Salami, un uomo nigeriano di cui si innamora e con cui decide di sposarsi e condividere le fatiche e i sacrifici di una vita nuova e difficile.
Tre sono le sue preoccupazioni maggiori: i suoi figli, il suo permesso di soggiorno e ricostruirsi una vita normale.
A tenerle unite sono una nuova grande passione: la fotografia.
Ibi inizia a fotografare prima e a riprendere poi tutta la sua vita e quella della sua nuova comunità, gli oltre diecimila africani che proprio in quegli anni ridisegnano la geografia umana del litorale Domizio, abitando le centinaia di villette-vacanza costruite spesso abusivamente negli anni '80-'90 da napoletani e casertani e diventando mano d'opera dell'agricoltura e dell'edilizia, in molti casi intrecciata a interessi criminali dei potenti clan camorristici della zona.
Nel cuore di questa trasformazione, Ibi fotografa e filma.
Lo fa per costruirsi un'altra vita, guadagnando per documentare matrimoni, battesimi, feste religiose (cattoliche, evangeliche, musulmane, senza alcuna distinzione).
Lo fa per aiutare e sostenere il Movimento dei Migranti e dei Rifugiati a cui aderisce assieme a Salami con entusiasmo trascinante, non solo per ottenere il suo permesso di soggiorno, ma anche perché crede fermamente nella necessità di lottare tutti insieme contro le ingiustizie che vincolano le vite della maggioranza dei migranti a Castel Volturno, in Italia, in Europa.
Ma filma soprattutto per raccontare la sua vita ai suoi figli e a sua madre, lontani e irraggiungibili: senza permesso di soggiorno Ibi non può raggiungerli e non vuole che loro partano come ha fatto lei. La Questura di Caserta ritarda la convocazione di Ibi in commissione per il diritto d'asilo. Quando finalmente verrà ascoltata in Commissione nonostante un curriculum di impegno civile di tutto rispetto la Presidente non se la sente di decidere favorevolmente per quella donna, perché i suoi precedenti sono troppo pesanti e nessuno ha il coraggio politico di superarli.
Ibi subisce un contraccolpo, si sente umiliata – dice – ma non si ferma!
Continua a lottare e soprattutto a raccontare.
Per oltre 7 anni Ibi racconta il suo mondo.
Se chiedevi a Ibi perché si sentisse punto di riferimento del Movimento lei ti rispondeva che era perché aveva imparato che “Impossibile non esiste” e lei coltivava obiettivi che prima le parevano “impossibili” ma di cui ora sentiva l’odore, come tornare ad abbracciare la madre.
Partecipa a decine di manifestazioni, filma ore e ore di immagini, scatta centinaia di foto e continua a costruire il suo mondo virtuale, imparando con Photoshop a rappresentarsi insieme con i suoi figli in grandi poster coloratissimi dove lei appare sorridente affianco a loro e alla vecchia madre. Resisti mamma, non andartene, tra poco mi danno il permesso di soggiorno e ti raggiungo. Non andartene prima.
Ad aprile 2015 arriva la buona notizia che Ibi aspettava. La commissione ha deciso nuovamente di convocarla e a breve avrà un appuntamento. È felicissima.
Ma il destino è beffardo e tragico.
A fine aprile Ibi inizia a stare male. Debolezza, stanchezza, giramenti di testa. L'8 maggio, in piena notte, le manca il respiro, trema, suda freddo. Viene ricoverata, ma non ce la fa: la notte del 19 maggio 2015 Ibi muore. Tra le braccia di suo marito, ma senza essere mai riuscita ad avere il diritto di vivere in Italia e di tornare a casa.
Oggi Salami vive ancora a Castel Volturno, nella stessa casa dove ha vissuto con Ibi per oltre 7 anni. L'assenza di Ibi si sente in ogni angolo e momento della vita in quella casa.
Salami lavora come meccanico nel cortile e spesso rimane solo con i suoi ricordi.
Continua a partecipare al Movimento dei Migranti, ma ogni lotta è anche simbolo del suo dolore.

Il film
Questo non è un film sulla storia di Ibi che avete appena letto, ma è un film di Ibi.
Un film che lascia parlare le immagini, lo sguardo, le parole, l'anima di Ibi.
Per molte settimane abbiamo guardato e studiato le tante ore di riprese e le migliaia di foto che Ibi ha lasciato nella casa dove viveva con Salami.
Quello che emerge non è solo la drammaticità e la dignità della sua storia, che Ibi racconta e spiega in lunghe video-lettere ai figli e alla madre, ma anche la sua ricerca estetica ed etica. Ibi non vuole solo testimoniare con la macchina fotografica, ma vuole prendere posizione. Studia la posizione della sua Canon 3d, la prova con le luci e senza, si mette in scena davanti a essa, la sperimenta come strumento di vera e propria maieutica rituale: ciò che Ibi fa con e davanti alla camera non è solo “registrazione”, è rito performativo, è un'azione che diventa preghiera, è parola, gesto che diventa speranza. Ibi dice e fa con la videocamera ciò che la vita non le permette di fare e vivere. E lo fa sperimentando, spesso nella solitudine della sua casa dove gli unici protagonisti sono quasi sempre lei e suo marito Salami. La videocamera come strumento quasi religioso, nel senso durkheimiano del termine, ma anche la videocamera come strumento di azione sociale e politica, di costruzione della sua posizione e partecipazione alla vita civile del Paese, dove la sua vita è congelata. Ibi scende in piazza, partecipa a cortei e manifestazioni, a dibattiti e azioni civili e lo fa sempre con la camera. Ore e ore di immagini sul movimento in cui non è solo importante ciò che Ibi filma, ma il fatto che sia lei a filmare. E lo si sente, lo si capisce, lo si percepisce, perché Ibi non si nasconde in uno sguardo neutro di documentazione oggettiva, ma si mette in gioco con la sua voce, i suoi movimenti, la sua presenza. Veder ciò che Ibi vede diventa il modo più diretto e inatteso per essere con lei e capire ciò che lei capisce e fa capire. Ibi ha prodotto la rottura essenziale del nostro sguardo post-coloniale consegnandoci il disorientamento di non poter osservare l'altro, ma di essere “costretti” a essere insieme all'altro. E lo ha fatto entrando nel tessuto civile e politico della nostra società, entrandoci come soggetto attivo e come io narrante, anzi quasi pre-narrante, in una sorta di istintiva inconsapevolezza che è azione comunicativa senza pensarsi come tale. Ibi filma perché vuole, perché ne ha necessità, perché non vuole stare zitta. Non filma per noi, non filma per farci capire. Per questo con Ibi possiamo capire di più.
Per questo, il film non racconta la storia sia pur necessaria di una donna migrante che deve vivere distante dai suoi cari, perché non ha bisogno di farlo, perché questo film è quella donna e con lei rimane a vivere, non solo a guardare, la condizione che a quella donna, come a migliaia di altre, appartiene.
Il film di Ibi è solo suo e come tale diventa di tutte le donne che vivono quest'epoca di viaggiatori illegali e famiglie spezzate, di diritti negati e sofferenze nascoste, di società che cambiano e che non sanno dove stanno andando.
Infine o forse prima di tutto, questo film è una storia d’amore. L’amore vero, intenso e difficile di Salami e Ibi, celebrato da Salami alla fine del film con una profonda preghiera cantata in memoria della donna con cui ha condiviso la fatica e la scommessa della migrazione.

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