Sinossi *:
Il terzo documentario è dedicato ai profughi ambientali e agli esuli da conflitti ambientali, un numero sempre crescente di persone, prive di tutele giuridiche e che vivono un dramma di cui si parla poco.
I profughi ambientali sono quanti si sono trovati costretti ad abbandonare le proprie case a causa di fenomeni quali degrado ambientale, depauperamento delle risorse, inquinamento, disastri naturali che determinano l’impossibilità di garantirsi dei mezzi di sostentamento nei territori di residenza. Si tratta, generalmente, di fenomeni quali siccità, desertificazione, erosione del suolo, deforestazione, ristrettezze idriche e cambiamento climatico come anche di disastri naturali quali cicloni, tempeste, terremoti ed alluvioni. Si stima che, ogni anno, ci siano circa 6 milioni di profughi ambientali. Un fenomeno che per il 2050, secondo le stime dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati, potrebbe riguardare 200/250 milioni di persone.
Accanto ai profughi ambientali, gli esuli da conflitti ambientali sono costretti ad abbandonare le proprie case a causa di opere infrastrutturali pubbliche o private e di progetti di sfruttamento delle risorse naturali che, in nome dello “sviluppo economico”, sacrificano l’ambiente e i diritti delle popolazioni locali.
Anche in questo caso, si tratta di un fenomeno in costante crescita tanto che si stima che attualmente siano presenti nel mondo più di mille conflitti ambientali, che colpiscono principalmente le comunità povere e le popolazioni indigene. Processi di spoliazione di risorse naturali in cui sono coinvolte più di 2.000 imprese e istituzioni finanziarie, inclusi molti soggetti statali dei Paesi sviluppati e dei Paesi a economia emergente, che determinano lo sgombero forzato d’intere comunità, inquinamento, deforestazione ed erosione dei suoli, cambiamenti climatici e perdita di mezzi di sussistenza per le popolazioni locali.
Spesso questi progetti si scontrano con le proteste e l’opposizione delle comunità attraverso azioni giudiziarie, ma nella grande maggioranza dei casi si concludono con l’impunità per le aziende. Tuttavia, tra queste storie di devastazione ambientale, usurpazione e persecuzione degli attivisti, si segnalano casi emblematici e coraggiosi di resistenza.
E’ il caso dei Guaranì del Mato Grosso do Sul in Brasile, che hanno praticamente visto sottrarsi, nel corso dei secoli, tutto il loro territorio ancestrale.
Ondate successive di deforestazione hanno trasformato la terra dei Guarani, un tempo fertile, in un’ampia rete di allevamenti di bestiame e piantagioni di canna da zucchero per il mercato brasiliano dei biocarburanti.
A causa della distruzione della foresta le varie comunità non possono più cacciare e pescare, la terra è a malapena sufficiente per seminare i raccolti e la malnutrizione è un grave problema.
Alcuni gruppi sono rimasti completamente senza terra e vivono accampati ai margini delle strade. Molti altri vivono in minuscole riserve sovraffollate, con conseguenze sociali drammatiche.
La risposta di questo popolo profondamente spirituale alla perenne mancanza di terra è stata un’epidemia di suicidi unica nel Sud America.
Da qualche tempo però, molte comunità Guaranì stanno cercando di recuperare piccoli lembi della loro terra ancestrale.
Questo fenomeno, detto “retomada”, è osteggiato fortemente dagli allevatori violenti che periodicamente ri-occupano la regione.
Spesso gli allevatori assoldano sicari armati per difendere le “loro” proprietà: i Guarani uccisi durante, o poco dopo, una retomada sono tanti.
La piccola comunità di Ñanderú Marangatú è un esempio tipico. Sebbene la legge le riconosca il diritto di vivere all’interno di una riserva di 9.000 ettari, nel 2005 la tribù è stata sfrattata dagli allevatori sotto la minaccia delle armi.
Ma la comunità è ritornata, dimostrando grande coraggio.
E’ da questa storia pluriennale di persecuzione e resistenza che il documentario parte per affrontare il tema di uno sviluppo economico che, non tenendo in dovuta considerazione i diritti umani così come i diritti delle comunità locali sulle proprie terre e risorse, genera, con sempre maggiore frequenza, nuovi esuli.
Come nel caso degli esuli da conflitti ambientali, la destinazione dei profughi ambientali sono spesso le città limitrofe ai propri territori. Si tratta difatti di persone che provengono da aree povere basate su economie di sussistenza e dunque dotate di mezzi insufficienti a permettere lunghi viaggi e migrazioni internazionali.
Gli spostamenti in massa di profughi ambientali verso le aree periferiche e degradate dei grandi centri urbani nei paesi in via di sviluppo vanno a gravare su situazioni già colpite da condizioni di scarsità d’acqua, assenza di igiene, povertà , con non pochi rischi sul piano della sicurezza.
Da questo punto di vista il caso del Bangladesh è emblematico e su questo il documentario si concentrerà.
Il Bangladesh, con più di 140 milioni di abitanti, è uno dei paesi fra i più densamente popolati del mondo ed è anche fra i più esposti e vulnerabili agli effetti devastanti dei cambiamenti climatici. Negli ultimi anni, infatti, erosione del suolo, tempeste, inondazioni hanno flagellato il Bangladesh con sempre maggiore intensità e virulenza costringendo i sopravvissuti a spostarsi in massa verso la già sovraffollata capitale Dhaka, che conta 12 milioni di abitanti e circa 400.000 nuovi arrivi l’anno. A rendere la situazione ancora più drammatica, si aggiunga che Dhaka non è il posto più sicuro in cui vivere in Bangladesh, come dimostra il fatto che nel 2009 in occasione dell’APEC SUMMIT21 il WWF ha classificato Dhaka come una fra le città più esposte ai rischi disastrosi dei cambiamenti climatici- soprattutto in termini di inondazioni (la città, infatti, sorge a pochi metri sul mare ed è regolarmente colpita da tempeste e alluvioni). La maggior parte dei profughi ambientali, una volta raggiunta Dhaka, finisce nello slum di Korail che viene descritto come un ammasso fatiscente di baracche fatte di bamboo, al cui interno vivono ben 40.000 profughi ambientali. Si tratta, nella maggior parte dei casi, di agricoltori e piccoli mercanti provenienti dal sud del paese, che hanno perso tutto in seguito alle inondazioni e alle tempeste.
Alle storie del Brasile e del Bangladesh si alternernano immagini di repertorio relative ad altri Paesi e continenti: inquinamento, desertificazione, innalzamento dei livelli del mare, cataclismi provocati da cambiamenti climatici, profughi e migranti ambientali. Immagini che sembrano presagire un destino ineluttabile per l’uomo se i valori dell’equità, della giustizia e della solidarietà umana non prevarranno sugli interessi economici.
E’ questo il messaggio che il documentario vuole trasmettere, affidandolo in particolare ai popoli indigeni che, pur avendo sempre vissuto un destino di espropriazione delle risorse e delle terre, rimangono tutt’oggi portatori di una filosofia e pratica di vita comunitaria profondamente rispettosa degli equilibri naturali e dell’ecosistema.
Da secoli i popoli indigeni ci ricordano che l’ambiente e l’uomo non possono essere considerati come due entità distinte. Ci ricordano che la Terra è la nostra Madre e che il modello di sviluppo occidentale rischia di provocare il collasso dell’ambiente e la morte dell’umanità.
Gli esuli da conflitti ambientali a tutt’oggi non hanno ricevuto un riconoscimento giuridico formale, così come non l’hanno ricevuto i milioni di profughi e migranti ambientali che fuggono da cataclismi, erosione dei suoli, depauperamento delle risorse naturali. Fenomeni in costante crescita ma scarsamente conosciuti e affrontati ancora poco efficacemente dalla comunità internazionale.
Il documentario vuole dare un contributo affinché questi problemi siano maggiormente conosciuti e affinché le storie di questi Esuli del terzo millennio non siano dimenticate.


Fotografia:
Sandro Bartolozzi

Suono:
Stefano Civitenga

Production Manager:
Natascia Palmieri

FOTO


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