Sinossi *: 14 Novembre 1951, l’argine sinistro del Po a poche centinaia di metri dal ponte della ferrovia Padova-Bologna si spacca. La marea invade in pochi minuti le terre del Polesine, una delle regioni all’epoca più povere, più misere del Nord Italia, di tutta Italia, d’Europa.
Vengono invase non solo le campagne, ma uno a uno tutti i paesi, fino alle città di Rovigo, Adria, Cavarzere. Decine di migliaia di uomini, donne e bambini sono costretti alla fuga, lasciando tutto ciò che hanno in balìa delle acque fangose del grande fiume, di Po come lo chiamano tutti, senza articolo, senza altra declinazione, semplicemente e immensamente Po.
Nel 1951 la RAI era solo radio, la TV non esisteva ancora. Per documentare la tragedia partono da Roma, da Bologna, da Venezia gli operatori dell’Istituto Luce, che con le loro cineprese in pellicola raccontano l’Italia nei cinegiornali proiettati ogni sera nelle sale del Paese appena entrato nell’euforia della ricostruzione post-bellica. Le loro immagini sono sconvolgenti: intere famiglie che scappano su zattere improvvisate, uomini e bestie intrappolate sui tetti delle case sommerse, un gigantesco lago che si estende per almeno 40km in larghezza e oltre 80 in lunghezza. La macchina dei soccorsi si attiva immediatamente, tutto l’esercito è mobilitato, gli anfibi della marina, nel cuore di un inverno nebbioso e umido, portano in salvo donne, bambini, anziani intabarrati nei pochi cenci di lana nera di una terra già ferita dalla miseria, dalla fame, dalle malattie di chi il miracolo della ricostruzione non lo vede proprio. La gara di solidarietà è nazionale, si attiva il Governo e le forze politiche di maggioranza e opposizione, in una terra al confine tra il Veneto bianco e l’Emilia rossa, negli anni in cui la divisione del mondo era appena iniziata e ancora in bilico, soprattutto a Nord Est. Arrivano perfino aiuti sovietici e immediatamente rispondono in forza la DC di De Gasperi e i paesi dell’alleanza atlantica. Ma l’acqua non se ne va, rimane lì immobile, putrida, marcia. Le case si sbriciolano, i paesi scompaiono, ritornare a casa non è possibile: oltre 130.000 polesani sono costretti alla fuga, profughi veneti in tante regioni del Nord industriale e non solo. Mal visti, additati per la loro povertà, per il loro dialetto di campagna, per le loro mani spaccate dalla terra, i loro occhi segnati dalla fame. Vivono l’onta della loro tragedia, prima oggetti passivi di pietà mediatica e politica, e subito dopo nemici in casa, portatori di problemi e fantasmi da cui il Paese aveva deciso di doversi liberare. I profughi del grande fiume, tra loro centinaia di bambini, strappati alle famiglie durante la fuga e assegnati a ospedali e istituti religiosi ancora ottocenteschi nelle forme e nei modi. Un’epopea popolare che ha segnato la vita di migliaia di persone, per poi cadere nell’oblio tipico delle vergogne che preferiamo dimenticare.